ita | eng

progetto carico di teoria

febbraio 2007  | Prof. intervista di Giorgio Camuffo


Sono passati più di dieci anni da quando Ettore Sottsass chiedeva “È possibile insegnare il design?”. Oggi la domanda andrebbe probabilmente posta in modo diverso: “Come si insegna il design?”


Gaddo Morpurgo: Data la risposta “Sì, si può insegnare design” a Sottsass, credo che ci siano due modi per insegnare il design. Il primo è: insegnare il design nelle università; il secondo è: insegnare un mestiere. Sono due cose totalmente diverse. Noi [Facoltà di Design e Arti Iuav] siamo una via di mezzo. Siamo un’università che tende a identificarsi con la professione, spostandoci sempre di più verso una scuola professionale, anche se si tratta di una professionalità avanzata. Forse il problema è di tornare a ragionare su come il design ha o può avere dignità universitaria. Questo è l’elemento che segna la divisione netta tra le due cose.
Altro discorso è quello riguardante le figure dei professionisti che insegnano all’interno dell’università.
Prima di questo, secondo me, bisogna andare a ridefinire il contesto in cui vengono svolti questi “insegnamenti”.

Prof. si interroga su una situazione che è esplosa nella nostra scuola: quasi tutti i docenti di progetto, sia esso comunicazione o prodotto, sono dei liberi professionisti. Questo ha fatto sì che, tendenzialmente, esista quello che noi una volta chiamavamo trasferimento dei “segreti di un mestiere”.
La formazione universitaria ha una complessità di carattere culturale, e anche un’estensione di carattere culturale, che rischia di essere riduttivo identificare esclusivamente con il trasferimento dei segreti di un mestiere. Questa, d’altra parte, è solo una delle componenti, che però oggi viene esaltata prevalentemente per ragioni di contingenza, perché ci sono pochi docenti, formatisi all’interno dell’università, che insegnino le discipline progettuali.



Crede sia possibile recuperare questo aspetto, ovvero formare i docenti delle materie progettuali all’interno dell’università, oppure è più giusto ricorrere a dei professionisti per i laboratori?

GM: Noi veniamo tutti, come matrice, da un’università del progetto che si chiama “Istituto Universitario di Architettura di Venezia”. Quindi l’insegnamento del progetto è da sempre stato trasferito innanzitutto da docenti, ovvero da docenti universitari che, in quanto tali, si occupavano di progettazione. Questi stessi professori strutturati erano, contemporaneamente, liberi professionisti. Questo significa che, oltre al lavoro nello studio, dedicavano una fascia molto importante del loro tempo all’università, non solo per svolgervi attività di didattica, ma soprattutto per fare ricerca, per alimentare il confronto culturale.
Nella Facoltà di Architettura insegnavano dei signori che si chiamavano Gino Valle, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi …, i quali erano degli stimati professionisti, ma erano anche dei docenti universitari che animavano confronti (a volte scontri) culturali, ricerche, dibattiti. Questa qualità della nostra università è purtroppo andata scemando lentamente, con il passare degli anni.
Purtroppo, spesso i professionisti/professori di oggi non fanno altrettanto. Non mi riferisco al loro lavoro all’interno dei singoli corsi, che ritengo sia svolto, per quanto riguarda i docenti della nostra Facoltà, nel migliore dei modi. Mi riferisco piuttosto al fatto che, una volta trasferiti i loro saperi agli studenti, il loro contributo alla crescita culturale dell’università finisce lì.
Ecco perché credo ci sia bisogno sempre più di una figura che sia strutturata all’interno dell’università, e che quindi si faccia anche carico dei cambiamenti di quest’ultima, oltre ad avere dei rapporti con la libera professione.