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Verso una cultura dell'apparenza

Architettura tra fotografia e fotografare.

Gaddo Morpurgo

1980 (1983)


«Oh, che bel bambino!». E la madre:

«Questo non è niente: dovresti vederlo in fotografia».

 

Questa vecchia storiella raccontata da Marshall McLuhan potrebbe sintetizzare il contenu­to di questa breve riflessione sul rapporto, consumato ormai da decenni, tra fotografia e architettura. II dialogo, riscritto e ambientato fra architetti, suona: «Oh, che bell'architettura!». E il progettista: «Questo non è niente: dovresti vederla in fotografia».Così riscritto il dialogo è più attinente al tema ma presenta una stonatura. L'elemento inverosimile è che novanta probabilità su cento oggi il dialogo avviene senza la presenza del bambino (l'architettura realizzata) ma "direttamente"sull'immagine riprodotta in una delle innumerevoli riviste di settore che sempre più "realizzano" l'architettura.

In una iniziativa come questa, che vuole riflettere sul rapporto Architettura-Fotografia, può essere utile  iniziare dalle caratteristiche attuali di questo rapporto, letto rispetto alle conse­guenze che la "presenza" della fotografia ha nei confronti della diffusione della conoscenza dell’architettura

Un primo dato è che questa iniziativa di introdurre il problema della fotografia in una Facoltà di architettura è gia in se un elemento di novità nel panorama culturale delle Facoltà di architettura italiane.

Se si fa eccezione per pochi casi, fra i quali l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia

la fotografia come tecnica, linguaggio, problema specifico, non viene considerata nella costruzione dei programmi di studio delle facoltà di architettura, ancora inconscia­mente legate alla interpretazione che Le Corbusier ha dato della macchina fotografica come "strumento di pigrizia". Vera o falsa che fosse l'affermazione di Le Corbusier, è un fatto indiscutibile che in questi ultimi anni ci troviamo costantemente davanti ad una prevalente fruizione dell'architettura mediata tramite la fotografia. Non presente come disciplina o come problema specifico, la fotografia è, volenti o nolenti, presente come realtà a cui tutti inevitabilmente fanno riferimento. Senza considerare, in questa occasione, il problema generale della fotografia e della sua incidenza nella trasforma­zione dei processi conoscitivi, vogliamo limitarci a mettere in evidenza l'incidenza che questo strumento ha nei confronti della conoscenza dell'architettura e ancor più specificatamente dei processi di acculturazione che avvengono nelle facoltà di architettura. Può essere un'ulteriore occasione di riflessione il fatto che, anche in questa periodo, in cui "dopo la riforma" è ripreso il dibattito nelle facoltà sulla ridefinizione delle "materie utili e necessarie", sia ancora totalmente assente il minimo ripensamento sulla strumentazione necessaria per conoscere e controllare i processi informativi del settore.

Un dato di partenza, a questo fine, sarebbe proprio l'analisi dell'incidenza della fotografia come mediazione fra il manufatto e la sua conoscenza. Quale conseguenza ha nella cultura degli architetti il sempre minor rapporto "diretto" con l'architettura? Quali architetture nasceranno da generazioni che identificano il colore del mattone con quello della Polaroid, quando non si limitano a conoscerlo tramite una retinatura di grigio? Ma non è solamente il problema delle caratteri­stiche tecnico-riproduttive della strumento. Un altro punto che va approfondito è che, in questa assenza di rapporto spaziale con l'architettura, il manufatto viene conosciuto tramite l'interpretazione critico-fotografica data dal fotografo. Un dato per lo meno curioso è che mentre siamo attenti a valutare l'apporto personale e soggettivo del critico nei confronti della "lettura" dell'architettura, raramente ci soffermia­mo a considerare il carattere interpretativo dell'intervento del fotografo. Anzi, spesso verifichiamo, tramite l"'oggettività" della fotografia, le "soggettive" interpretazioni del critico.  Se poi consideriamo come molti storici costruiscano le lora interpretazioni nel chiuso di studi circondati da libri e riviste, capiamo la complessita del problema che vogliamo qui solamente indicare. Dimentichiamo troppo spesso come la riproduzione fotografica, nei confronti dell'architet­tura, ha inevitabilmente un carattere di traduzione e la sua attendibilità come strumentodi conoscenza critica e storica vada tarata sulla sintassi figurativa propria di questa mezzo di riproduzione. Se queste considerazioni sono vere, ne dovrebbe discendere un interesse particolare da parte delle facoltà di architettura sullo strumento che quotidianamente viene utilizzato per leggere e conoscere l'architettura realizzata. L'assenza di un approfondimento di questi problemi è paragonabile ad una critica musicale che non consideri con la dovuta attenzione i problemi che derivano dalla fruizione discogra­fica della musica. II parallelismo fra musica e architettura andrebbe approfondito perché, come ha analizzato Dorfles, l'architettura, come la musica, è suscettibile di una comunica­zione diretta, attraverso se stessa, e di una indiretta, attraverso la notazione e il disegno presentando "un duplice tipo di semioticita".

A questi due tipi di semioticità va certamente aggiunto il ruolo della riproduzione (fotografica o discografica) all’interno dello stesso contesto di significato. Un altro aspetto di questo parallelismo è l’attenzione che, anche se in periodi lievemente diversi, sia nel campo della musica che in quello dell’architettura si è avuto per l’immagine della notazione (o del progetto) prescindendo dalle ragioni transitive di carattere realizzativi o esecutivo scrittura.

E la fissazione dell'esecuzione musicale che deriva dalla fruizione prevalentemente disco­grafica non può essere messa in relazione con l'immagine scelta, fissata e riproposta continuamente dalla fotografia? Ritornando al problema di base, dopo questa parentesi musicale, il problema che mi premeva porre è quello del disinteresse spesso implicito nei confronti della capacita inter­pretativa del fotografo. Un disinteresse sotto certi aspetti inconscio o solamente apparente. Mi è capitato, in occasione della preparazione della mostra "Fotografia e immagine dell'architettura" organizzata nel gennaio di quest'anno (1980)  alla Galleria d'Arte Moderna di Bologna, di affrontare il problema della restituzione fotografica dell'architettura con diversi architetti che per il ruolo, e l'importanza, che hanno nella "cultura architettonica" sono particolarmente attenti alle immagini che diffondono le loro costruzioni. E’ interessante il fatto che molti di questi architetti, interrogati sul ruolo dei fotografi, manifestino immediatamente una totale diffidenza nei confronti della capacita dei fotografi di interpretare la loro architettura, e che diversi abbiano sottolineato come solamente Casali sia un fotografo che «non sia necessario controllare». Il fatto che alcuni abbiano mandato alla mostra (mostra che aveva come terna la fotografia) fotografie senza segnalare l'autore, è un'ennesima prova del ruolo che viene attribuito al fotografo.

Due problemi potrebbero essere sviluppati da queste considerazioni. Il primo problema è definibile come "l'anonimato del fotografo" ed è riconducibile alla sottovalutazione del ruolo interpretativo e critico del fotografo. Raramente si chiede l'autore di una foto tessera. La foto tessera si usa e basta. Analogamente le fotografie d'architettura vengono usate e riusate prescindendo da ogni riferimento all'autore. Sul riuso delle immagini si potrebbe aprire un lungo discorso. Basta per ora ricordare come le riviste di architettura utilizzano molto spesso materiale fotografico rifotografando fotografie gia rifotografate. La Casa del Fascio di Terragni, per fare un esempio, viene ancor oggi pubblicata riproponendo costantemente una decina di fotografie. Il secondo aspetto che va messo in evidenza è il riferimento costante a Casali. IL ruolo fondamentale che Casali ha avuto in decenni di collaborazione con la rivista Domus ha lentamente determinato una coincidenza fra l'immagine di Casali e l'immagine dell'archi­tettura italiana. A quell'immagine si fa riferimento e quell'immagine rappresenta l'architet­tura. Ad un altro livello si pensi al ruolo che gli Alinari hanno avuto nella costruzione dell'immagine dell'Italia. Un'immagine che abbiamo incontrato nelle copertine dei quader­ni degli anni cinquanta, nelle pagine alterne dell'atlante di geografia della scuola o in tutti i paesi dove è acquistabile una cartolina illustrata.

Sarebbe oggi importante analizzare a fondo le caratteristiche delle fotografie che Casali  ci ha proposto in trenta anni di lavoro, sia per capire l’importanza di un fotografo in parte sottovalutato dalla “cultura fotografica”, sia per capire le conseguenze nel campo della nostra conoscenza dell'architettura italiana, di una abilita che, come egli dichiara: «sta nel sottolineare e valorizzare gli aspetti più fotogenici dell'architettura» dando «un’importanza fondamentale al particolare di grande effetto e soprattutto alla composizione che, a livello d’immagine, può addirittura reinventare l'architettura».

Queste "reinvenzioni", assunte spesso inconsciamente da chi ha visto tramite Casali l'architettura, fanno parte di un patrimonio culturale dove l'intervento del fotografo non è certamente riducibile alla pura operazione tecnico-riproduttiva. Abituati ad un certo modo di fotografare l'architettura, di reinventare e "valorizzare" l'architettura e considerato questo modo come la "naturale" fotografia d'architettura, è chiaro come un diverso modo di interpretare fotograficamente il manufatto e lo spazio sia «si interessante ma non rappresenta la "mia" architettura».

L'immagine di Basilico, ad esempio, dove il manufatto viene volutamente fatto emergere come presenza da riosservare, proponendo una lettura selezionata del paesaggio urbnno, sfugge spesso al "controllo" dell'architetto. Ma è più "vera" la città disabitata di Gabriele Basilico o lo spazio vissuto di Cesare Colombo, la Bologna senza automobili di Paolo Monti o il catalogo di superfici di Luigi Ghirri? L'assurdità dell'interrogativo è evidente come è altrettanto evidente che nella molteplicità delle letture proposte va ricercato il contributo che questi come altri fotografi danno alla  conoscenza dell'architettura. II problema da porsi è invece: quale utilizzazione di queste immagini viene fatta nelle riviste di architettura o nelle sempre più frequenti mostre sull'architettura e la città. Le riviste, come le mostre, rappresentano infatti i due canali che sempre più mediano la fruizione dell'architettura. Anche se la principale lettura di una rivista di architettura avviene più a carico dell’elemento iconico che di quello verbale, non sempre l'elemento iconico e quello grafico-verbale si integrano in una comune logica comunicativa e alle "illustrazioni" viene ancora spesso   attribuito il compito di alleggerire la pagina scritta.

La diversificazione di ruolo della fotografia nelle riviste e nelle mostre è un altro terna su cui ci si dovrebbe soffermare.

Riviste con illustrazioni o riviste illustrate? La fotografia come strumento espositivo o come "testo" da esporre? Questi ed altri interrogativi andrebbero posti volendo sviluppare in ricerca una consuetudine d'uso. Analizzando entrambi i canali va attentamente considerata la compresenza del disegno e della fotografia. La preseriza congiunta di questi due strumenti e linguaggi, del progetto anticipatore e della fotografia della realizzazione, caratterizza infatti la fotografia d'architettura non percepita solamente come immagine di una realizzazione, ma come verifica dell’apparenza del progetto.

La fotografia interviene nel nostro rapporto con l’architettura ad altri livelli non restringibili all’utilizzazione che ne viene fatta nelle riviste e nelle mostre.

Al problema della fotografia come consumo di immagini da altri selezionate va affiancato il "fotografare": l'uso che sempre più spesso tutti facciamo di questo "oggetto antropologica­mente nuovo". Chi  levando le caramelle da un regalo per bambini comprato sull'autostrada e inserita una pellicola scatta incredulo del risultato, e chi esibendo il proprio fallico zoom, con molto più foto amatoriale slancio, ricerca l'immagine personalizzata da ingrandire e mostrare.

Uso della fotografia e fotografare non come consumo e produzione di immagini, ma come due diversi modi di consumare immagini. Fotografia e fotografare esemplificano infatti il duplice rapporto che noi possiamo avere con l'oggetto architettonico realizzato. Da un lato la fotografia, il consumo dell'architettura in veste riprodotta, dall'altro lato il fotografare che significa andare in un luogo e avere un rapporto diretto, fisico e spaziale con l'architettura. Una condizione percettiva che non va sottovalutata nei confronti delle forme di conoscenza dell'architettura. In entrambi i rapporti (fotografici) emerge la necessita della presenza dell'oggetto architet­tonico, la presenza tridimensionale della realizzazione architettonica. Rispetto alle trasfor­mazioni grafiche dell'architettura come disegno più o meno colorato è un altro aspetto che non va sottovalutato. Questa condizione di "esistenza del manufatto" ci riporta al fondamento chimico dell'operazione fotografica.

Riprendendo Roland Barthes in una recensione di Calvino: la fotografia come «traccia di raggi luminosi emanati da qualcosa che c'e, che è li. E questa è la fondamentale differenza fra la fotografia e il linguaggio, il quale può parlare di qualche cosa che non c'e». Sostituendo al "linguaggio" il disegno come linguaggio specifico, ci ritroviamo con i due termini sostanziali dell'attuale dibattito critico sull'architettura. L'architettura realizzata come presenza tridimensionale di una trasformazione spaziale nell'ambiente, traducibile tramite l'operazione fotografica, si affianca o contrappone o  integra ad un'architettura che vive e si identifica ed esaurisce nel disegno. Questo è uno degli aspetti della cultura dell'apparenza a cui vogliamo far riferimento. II "disegno degli architetti" è oggi sempre più il «linguaggio (che) può parlare di qualche cosa che non c'e» e non come anticipazione di qualche cosa che può realizzarsi, come concettua­lizzazione grafica di un processo realizzativo, ma come qualche cosa che ha validità in se. "Disegno di architetti"e non "disegno di architettura",perche a ben vedere l'unica cosa che unifica la vasta produzione di materiale grafico proposto in riviste e in mostre non è altro che un dato biografico che accomuna i vari autori. Alla chiarezza di un Massimo Scolari che dichiara “... questi acquarelli sono fatti da una persona che incidentalmente è un architetto “ fa da contrappunto la non chiarezza di un arbitrario recinto critico costruito sulla spesso orecchiata ed imitativa produzione grafica di “laureati i architettura”.

Davanti “all’abbandono del principio della raffigurazione a favore di un ribadito piacere della figurazione”, perde senso, se non genera adirittura equivoci, il permanere di un confine "architettonico" come emerge in molte e sotto certi aspetti interessanti iniziative espositive che ci si ostina a definire di "architettura". Ma perchè questa apparente divagazione nell'ambito del disegno? Essenzialmente per l'esigenza di definire il contesto entro cui leggere il ruolo della fotografia sull'architettura. Il consumo di queste immagini va analizzato in relazione all'universo visivo che caratterizza la trasformazione dell'operare architettonico.

In questa contesto va considerata la coesistenza della sempre pili generalizzata riduzione ad  immagine dell'architettura operata dalla fotografia con il "piacere della figurazione" che  ritroviamo nella produzione grafica degli architetti.

Traduzione fotografica della spazio fisico-reale e invenzione grafica concorrono, per strade diverse, ad alimentare quella cultura dell'apparenza intesa come processo conoscitivo scisso  dall'esperienza diretta della tridimensionalita dello spazio fisico. Al di fuori da ogni giudizio di valore, da ogni riduzione a buoni e cattivi, come troppo spesso oggi viene risolo il confronto fra tendenze; questa "presenza dell'assenza" dello spazio tridimensionalmente percepito è un aspetto dell'attuale cultura che va considerato volendo riflettere sul rapporto fotografia-architettura. La "presenza" della fotografia, infine, non può essere ridotta alle sole imrnagini  definite come "fotografie di architettura" ricostruendo un "genere" che, se può essere utile ai fini di una sistematizzazione, non permette certamente di esprimere la diversita di contributi che la cultura urbana assume dalla fotografia, così  come utile sarebbe analizzare il ruolo che la fotografia sempre più ha come oggetto nello spazio, come "presenza" materiale nello spazio oltre che memoria, congiunzione tra il "qui-ora" e il "gia stato".