L’architettura già vista
Il mezzo fotografico condiziona la conoscenza dell'architettura, ne estende e ne modifica la memoria mettendo in discussione la verità della verifica diretta
Gaddo Morpurgo
1984
«... questa immagine è stata presa nella tua stanza, dalla parte verso Le Gras, e ho adoperato la mia camera oscura più grande e la mia lastra più grande. L'immagine degli oggetti e rappresentata nitidamente, con fedeltà sorprendente fino ai minimi particolari, e con le sfumature più delicate ... » Con queste parole Niépce annuncia al fratello, il 16 settembre 1826, di essere «riuscito a ottenere un'immagine della natura talmente buona che non potrei desiderare di meglio ... ».
Guardando oggi l'oggetto di cui parla Niépce non siamo certamente così convinti di questa presunta «fedeltà sorprendente» visto che l'immagine appare più simile ad una cattiva fotocopia che a una delle tante fotografie che consumiamo quotidianamente.
Questo oggetto (chiamiamolo «oggetto» così non entriamo nella lite fra storici della fotografia per attribuire o no a questa immagine il ruolo di «prima fotografia della storia»), questa oggetto è in ogni caso diventato un simbolo e l'inizio, quasi inevitabile, di tutte le storie, o racconti, che indagano sulla fotografia.
Partiamo allora da qui. Anche a noi questo oggetto interessa perchè in quella immagine, e da quella immagine, emergono tutti i protagonisti dell’intreccio che nella nostra cultura si è venuto a determinare fra architettura e fotografia.
Soggetto sperimentale delle prime ricerche sulla fotografia, l’architettura è stata in seguito sempre più influenzata dalla presenza degli infiniti «ritratti» che la fotografia le andava via via facendo.
Da una originaria «disponibilità» al farsi ritrarre si è però oggi passati al problema della fotogenia dell'architettura. Ma cosa significa questo passaggio o capovolgimento dei termini?
Se sin dall'inizio della pratica fotografica l' architettura si è posta come inevitabile presenza dell’uscita in esterni del fotografo, e in tal senso inevitabilmente l'architettura è diventato il soggetto privilegiato una lunga ricerca di fermare le immagini con la macchina fotografica, in seguito, con la diffusione della fotografia, con l'estensione del consumo di fotografie, l'immagine stessa dell’architettura è stata sempre più condizionata dalla conoscenza attuata tramite fotografia. L'architettura che per sua natura, è statica e fortemente dispersa nel territorio, ha incominciato a circolare, a muoversi; ha abbandonato i propri luoghi, i propri contesti, per mostrarsi sempre più in un altro contesto, quello delle possibili trascrizioni fotografiche. Ma questa acquisita «mobilita» cosa sta comportando nella trasformazione dei processi conoscitivi dell'architettura?
Dietro alla fotografia di Niépce una scritta, tracciata dopo la morte dell'autore, che dice: «Il primo esperimento riuscito del signor Niépce per fissare permanentemente l’immagine della natura».
Ecco, «fissare permanentemente», è il punto forse più interessante su cui riflettere per considerare il ruolo della fotografia nei confronti della conoscenza dell’architettura.
Cosa è cambiato nella nostra conoscenza dell’architettura da quando a fruiamo sempre più spesso la fotografia?
Se usciamo dal dato tecnico-rappresentativo, dalla grande scoperta di riuscire a fissare chimicamente l'immagine, estendendo il significato di «fissare permanentemente», la fotografia agisce nei nostri processi di apprendimento dell'architettura a un primo livello rompendo il tempo dell'architettura.
Con l'immagine fotografica abbiamo acquisito la possibilità di ricondurre a un altro tempo (quello fermato) la verifica. Noi ci comportiamo infatti davanti a una immagine come se fossimo nel luogo dell'architettura. Questo inevitabile errore di luogo è un altro aspetto che caratterizza l’estensione della conoscenza fotografica dell’architettura.
Consumatori sempre più «seduti» di architettura, la associamo a quella prima immagine che ce l'aveva «presentata». Quanti di noi, pensando alla «casa sulla cascata» di Wright, non ritornano automaticamente a immagini legate al rosso-Einaudi dei testi di Zevi o ripensando a quell'edificio di Le Corbusier (primo progettista di immagini editoriali di architettura moderna) non possono prescindere dagli album rettangolari de Les Editions d’Architecture di Zurigo?
L'essere riusciti a fermare permanentemente le immagini della realtà ha comportato, infatti, anche altre importanti trasformazioni nella nostra conoscenza dell'architettura e dello spazio. Si è estesa e modificata la nostra memoria dell'architettura.
Possiamo, almeno potenzialmente, avere sul nostro tavolo le immagini di tutte le architetture realizzate prima di quella che stiamo pensando. Ma questa apparente azione di avvicinamento si trasforma ben presto in una situazione di allontanamento. Siamo davanti alle conseguenze di quella «rivoluzione antropologica» indicata da Barthes, e chiaramente sviluppata da Dorfles, per cui con la fotografia la realtà appare sempre più come cosa di «gia stato».
Nello stesso tempo, la fotografia tende a presentare un passato che viene «presentificato» per il suo essere percepibile ora e qui. La fotografia come estensione atemporale della nostra memoria dell'architettura forse ci conduce all'affermazione di Eisenman per cui «l'oggetto non ha una storia passata o futura; ha solo una condizione presente, come sospensione di passato e futuro». La fotografia agisce in questa sospensione e la rafforza.
Acquisita la presenza dell'immagine fotografica dell'architettura, dobbiamo forse a questa punta allontanarci dalla fedeltà di questa immagine, superare il valore di mimesi icastica che inevitabilmente la fotografia contiene, per incominciare a leggere i segni specifici del suo essere trascrizione di una realtà.
Dobbiamo cioè iniziare a cogliere le informazioni che provengono da una forma particolare di riscrittura dell'architettura come oggi ci presenta la fotografia. A questa punta dobbiamo pero mettere in discussione la «verità» della percezione diretta dell'architettura; dell'essere nell'architettura per comprenderla.
Che utilità può ormai avere il tentativo di rompere la catena infinita di riproduzioni e realtà nella vana pretesa di ridefinire un inizio? Ormai l'oggetto, come l'architettura, possiamo solamente ri-vederlo e nel rivederlo dobbiamo inevitabilmente fare i conti con la trascrizione operata dal foto grafo.
Tempo fa mi è capitato di ascoltare il commento ironico di un fotografo che raccontava del designer pronto a trasformare il proprio oggetto per renderlo più fotogenico. Siamo in questo caso davanti alla punta più importante del rovesciamento attuato dalla fotografia in un contesto di estensione dell' influenza dei media. Nelle ultime tendenze del design non e secondario, del resto , lo spostamento che si è attuato dalla iterazione (e industrializzazione) dell'oggetto alla iterazione dell'immagine dell'oggetto operata dalla fotografia.
In questa situazione di forte compresenza dell'oggetto e della sua immagine, dell'architettura e della sua rappresentazione fotografica, molte delle categorie che ancora utilizziamo per capire le trasformazioni dei procedimenti progettuali vanno allora riviste. Il concetto stesso di copia (o di copiare) che ritroviamo nel successo di tante «scuole» e la distanza sempre più leggibile fra «maestri» e «seguaci imitatori» va forse rivista considerando gli effetti delle diverse trascrizioni offerte dall'estensione dei media informativi.
Non vi è dubbio, per esempio, che il rifiorire dell'eclettismo in molte esperienze progettuali sia in stretta relazione con quel passato che viene «presentificato» dal medium fotografico.
Una «scuola» architettonica si può oggi attuare, attraverso l'informazione visiva, anche tra architetti che non si sono mai incontrati tra loro. Operando in un contesto sovraffollato in cui coesistono e si intrecciano linguaggi, figure e realtà eterogenee, il lavoro si sposta sempre più nell'ambito della ridefinizione delle possibili relazioni. Siamo lontani pero, in questa nuovo contesto, dal significato che tradizionalmente veniva attribuito alla «citazione», come sempre meno appartiene alla nostra cultura quella pratica del montaggio che produceva il collage.
Il nuovo rito del consumo dell'immagine deve sempre più confrontarsi con la pratica del mixage che, trasferendosi in ogni forma di fruizione, modifica anche il nostro rapporto con il testo fotografico. Dovendoci preparare, fra breve, ad affrontare i cambiamenti che produrrà il nuovo periodo enciclopedico rappresentato dal computer, può essere utile risfogliare, ma con una diversa attenzione, le vecchie cartoline dell'architettura.