Francesca Parotti
Dopo aver girato in lungo e largo il mondo, sempre mantenendo una distanza di rispetto da questo continente, il mio incontro con l’Africa doveva arrivare. Devo dire che è stato inatteso, sorprendente e incantatore. Grazie a questo progetto, ho conosciuto l’Africa passando per il Rwanda, uno stato grande come la mia regione, la Toscana, verdissimo, pieno di laghi e fiumi. Un paese dove le strade sono tenute come giardini ed è vietato l’ingresso alle buste di plastica, che con le sue mille colline e altrettante contraddizioni, questo piccolo cuore d’Africa ha conquistato il mio; saranno stati i sorrisi regalati a ogni incontro per strada con qualche bambino o passante carico di oggetti, sarà stata l’energia che si è formata all’interno del gruppo di lavoro al quale ho partecipato o forse, banalmente il ritrovare un ritmo uguale a quello del sole, svegliandosi all’alba e dimenticando lo stress occidentale. La verità è che non avrei voluto partire più, rimanendo alle prese con il Bamboo e la struttura da costruire, con la certezza che la trasformazione del progetto da idea a materia passa attraverso le mani e la risoluzione pratica dei problemi che si presentano durante la realizzazione concreta di una struttura è l’esercizio più grande per ogni progettista.
Il Bamboo è un materiale che ben si adatta a essere usato come componente sperimentale; il padiglione che è stato progettato in Italia ha preso forma in terra rwandese trasformandosi grazie alla capacità creativa e manuale degli studenti, di volta in volta per superare ostacoli dovuti alla natura intrinseca della struttura, ai limiti del materiale e alla complessità della forma che gli si voleva assegnare.
Incrementando le loro conoscenze sia riguardo al materiale in sé per sé, sia rispetto a tecniche costruttive già utilizzate in altri contesti, gli studenti di questo gruppo hanno sviluppato una capacità progettuale e abilità manuali tali da realizzare forme non solo belle, ma anche funzionali e tecnicamente corrette.
Il padiglione Rwanda a Kanombe si è nutrito delle possibilità che il Bamboo, adattandosi alle necessità progettuali e piegandosi alla nostra fantasia, gli ha offerto come materiale strutturale dalle molteplici caratteristiche.
Leggero, resistente, sostenibile e facilmente lavorabile, anche nell’ambito di questo progetto si è dimostrato uno dei materiali da costruzione più innovativi.
Alberto De Simone
A chi mi chiede com’è il Rwanda parlo di colline verdi striate da rosse strade sempre affollate di persone e di biciclette cariche di banane al punto che a volte non si vede chi pedala e di persone cordiali e curiose di conoscere l’umuzungu.
Ho trascorso lì un periodo troppo breve per poter capire il Paese, così ho lasciato che mi stupisse con i paesaggi, le tradizioni, e quelle che a chi proviene dall’Europa appaiono stranezze o contraddizioni.
Ho visto bambini percorrere scalzi decine di chilometri per andare a prendere l’acqua con una tanica in una mano e un cellulare nell'altra,
Ho visto persone che vivono in case senza elettricità né lavorare lungo le strade alla posa di cavi in fibra ottica, ho visto un villaggio Batwa ed è stata un'esperienza umana meravigliosa.
La dimensione contenuta del Paese mi ha permesso di visitarne gran parte pur avendo solo pochi giorni da dedicare al turismo.
Questi tour sono stati molto utili per lo scopo per cui ero lì, mi hanno permesso di osservare le architetture delle case e la struttura dei villaggi per trarne riflessioni e spunti per il progetto che stavamo portando avanti.
Per tradizione le case dei coltivatori sono sempre costruite all'interno dell'appezzamento di terra di proprietà con i materiali che si trovano in loco e questa è una costante che continua nel tempo.
Così le pareti delle case, originariamente fatte di paglia e papiro, col passare del tempo sono diventate di terra (quella terra rossa, argillosa e ferrosa che è ovunque), mentre i tetti di paglia hanno pian piano lasciato il posto a coperture di legno, terra e tegole o più recentemente in lamiera.
Queste osservazioni hanno portato a voler contestualizzare il padiglione utilizzando la cultura del luogo e dunque scegliendo tra le possibili tecniche di costruzione in terra cruda quelle già largamente in uso nel paese; così si è scelto per le pareti laterali del padiglione il metodo del torchis (struttura in legno rivestita di terra mista a fibre), che consentiva un'ottima integrazione con la struttura, mentre per la parete di fondo, una specie di quinta scenica, si è optato per dei blocchi adobe da intonacare e colorare.
Sono state fatte molte prove di sulla terra per capirne la consistenza e la composizione e molte altre per trovare la giusta mescola con fibre naturali al fine di aumentare la resistenza e diminuire le fessurazioni.
Alla fine abbiamo ottenuto risultati eccellenti usando la tecnica tradizionale che prevede l’uso di radici come fibre da aggiungere alla terra.
Mi fa ancora sorridere il ricordo degli sguardi dei muratori locali che lavoravano in un cantiere vicinissimo al nostro e a volte si fermavano per guardarci mentre ci arrampicavamo su quella strana cosa di bamboo e terra che chiamiamo padiglione.
Armando Barp
Arriviamo a Kigali dopo un viaggio lunghissimo con tempi morti infiniti. Appena arrivati si comicia a capire che le cose non sono facili. La polizia ci chiede dove alloggeremo e noi non ne abbiamo la minima idea. Non abbiamo l’indirizzo e fuori non c’è nessuno che ci aspetta.
Per fortuna abbiamo un numero di telefono registrato sul cellulare e risusciamo a comunicare con gli amici di Kigali. Ci vengono a prendere e ci portano al centro San Marco. Così impariamo che le strade non hanno un nome e che gli indirizzi sono vaghe descrizioni.
Il centro San Marco è un posto delizioso con casette in mattoni a vista e laboratori in cui si insegnano lavori artigianali a gruppi di donne. Appena arrivati si vede emergere in alto la struttura in bamboo che domina con le sue due ali. A vederla sembra molto più grande del modello fatto a Venezia ed ha un’aria elegante e fragile. Andiamo subito a vederla e cominciamo a pensare come procedere nel lavoro. Gli studenti sono un po’ preoccupati e chiedono di fare una riunione nella quale ci raccontano tutte le loro perplessità. E’ difficile spiegar loro che si tratta di una sperimentazione nella quale anche gli errori sono utili per andare avanti.
La mattina dopo si comincia a programmare il lavoro e subito ci scontriamo con problemi banali, ma che ci fanno capire le difficoltà. Bisogna saldare delle piastre in ferro sui nodi e l’energia fornita dalla rete non è sufficiente. Ci vuole un gruppo elettrogeno autonomo. Per averlo dobbiamo aspettare due tre giorni.
Intanto cominciamo a fare lavori sui muri. E’ già pronta una parete in bamboo intrecciato e prepariamo la terra cruda per completarla. La preparazione richiede la pigiatura (come si faceva una volta con l’uva) di argilla, sabbia e fibre naturali. Per le fibre, dopo lunghi ragionari, si decide di usare della paglia lasciata lungo la strada principale da lavori di ripulitura dei bordi. Ne raccogliamo alcuni sacchi e si comincia. E’ un lavoro che diverte molto gli studenti che come bambini si sporcano tutti, si tirano palle di argilla e sono costretti a docce prolungate peer ripulirsi. Alla sera il muro è riempito e si lascia una parte scoperta per far vedere la tecnica di realizzazione. Bisogna farlo asciugare per un po’ di giorni prima di mettere l’intonaco di finitura. Intanto Davide, che è il nosttro esperto di terra cruda, prosegue i suoi esperimenti sulle miscele per l’intonaco su uno dei muri di mattoni.
Cominciamo a predisporre la parete siul lato opposto con una variante per lasciare in vista il pilastro che nella prima parete è in parte inglobato nella parete e ci si pone il problema di realizzare una finestra. il foro è riquadrato con elementi di bamboo legati con fibre naturali ed anche per la parte mobile si pensa di utilizzare elementi naturali.
Si cominciano a cercare materiali adatti per la finestra. Intanto dopo tre giorni arriva il gruppo elettrogeno: un enorme motore da camion collegato ad un generatore di corrente che richiede cinque persone per muoverlo. Il saldatore, un omino simparticissmo e minuto, chiede che i bamboo intorno ai nodi da saldare siano protetti con stracci bagnati e quindi si procede ad avvolgere tutti i bomboo con stracci recuperati dalla scuola di sartoria ed a bagnarli. Il nostro omino si arrrampica sui nostri primitivi trabattelli e, sotto l’attento sguardo dei cinque trasportatori, salda finalmente le piastre sulle cerniere. Questo ci consente di abbassare un po’ la struttura per mettere la copertura. Il lavoro che in teoria è semplice diventa subito difficile per via dell’altezza e per via della labilità della struttura. Appena viene liberata per farla scendere si deforma in modo preoccupante e bisogna fare delle acrobazie per tenerla in forma. In ogni caso si riesce solo a portarla in posizione orizzontale ad una altezza tale da rendere complicato il montaggio della copertura.
Risulta subito difficile pensare di mettere delle lastre in lamiera ondulata, come si era pensato all’inizio, per la difficoltà di lavorare a quell’altezza, per la difficoltà di fissarle alle strutture in bamboo e per il loro peso. Si opta quindi per coprirla con dei teloni di plastica. Non è facile recuperare i teloni di plastica, ma alla fine li troviamo in un negozietto del centro. Bisogna tagliarli e rimettere gli anelli per legarli. Dopo vari giri troviamo anche gli anelli e ci costruiamo un punzone con un pezzo di tondino, preso in un cantiere vicino, per fissarli. Alla fine riusciamo a preparare i teloni (ce ne vogliono due perchè non ne esistono di dimensione sufficiente a coprire l’intera ala).
Il lavoro di fissaggio è reso difficile dall’altezza a cui si deve lavorare e dal vento che tende a portar via il telo non fissato. A vederlo alla fine fa un po’ paura perchè sembra una vela e non è facile capire se la struttura resisterà a colpi di vento forti.
Intanto si prosegue con la finestra. Un primo esperimento con cannicciato un po’ verde non ci convince e decidiamo di utilizzare il bamboo anche per la parte mobile. Alla fine è realizzata con pezzetti di bamboo legati ed anche le cerniere sono fatte in bamboo piegato a caldo. Il risulato sembra soddisfacente, e anche elegante se si vuole.
Iniziamo infine un ultimo lavoro: la costruzione di un muro in mattoni crudi, predisposti prima del nostro arrivo e che sono ormai ben secchi. Si ripete il rito della predisposizione della malta di argilla con la festa di potersi sporcare dai piedi alla testa e si realizza un tratto di muro abbastanza solido e diritto, anche perchè si erano preparate due dime di riferimento ai lati.
E così tra una difficoltà e l’altra i pochi giorni di permanenza sono finiti.
Bisogna aggiungere che sono stati presenti in alcuni giorni gli studenti dell’irst (l’università di Kigali) che ci hanno aiutato nel alvoro di cantiere.
Ci siamo concessi solo un sabato per andare a vedere la capanna del re a Nianza che è una ricostruzione della vera capanna, ma che dimostra una abilità nell’uso dei materiali locali straordinaria e un impianto con una ritualità della vita e delle cerimonie veramente impressionante.
La città purtroppo l’abbiamo vista solo alla ricerca di materiali o di attrezzi e in una breve vista al mercato. E’ di difficile comprensione per un occidentale, perchè sembra più l’insieme di tanti villaggi con densità molto basse salvo nella parte centrale con negozi e uffici.
L’esperienza fatta in questo cantiere da noi e dagli studenti è stata molto importante per capire le difficoltà di progettare per un luogo in cui le logiche di lavoro e di produzione sono così diverse dalle nostre. La piattaforma sperimentale messa in atto nel centro San Marco può e deve divenire in futuro un luogo di sperimentazione di tecnologie e di progetti che possono indirizzare le modalità di intervento locali. Uno strumento importante sia per indirizzare i lavori preparatori da fare in Italia che per operare per un coinvolgimento ancora maggiore degli studenti rwandesi e del Kist (Kigali Institute of Science and Technology). Un coinvolgimento necessario sia nella fase di progettazione che in quella di cantiere. Sarebbe bellissimo, e forse non impossibile, riuscire ad avere qualche borsa di studio per studenti del Kist presso lo IUAV.
Maria Rosa Vittadini
La struttura l'avevo vista per la prima volta a Venezia, in scala 1:1 con lo sfondo del canale della Giudecca e i mattoni rossi del Mulino Stuky. E mi era parsa strana e bella, come un insetto leggero pronto a spiccare il volo. Poi erano venute le spiegazioni tecniche. Mi era piaciuta moltissimo l'idea di costruire in bamboo con i muri di terra cruda, utilizzando i materiali tradizionali e anzi trasformando in materia prima scarti di lavorazione, come le foglie del banano o il durissimo legno di caffè. Tanto da convincermi ad aggregarmi al gruppo in partenza per Kigali così, senza un compito ben definito: se non quello di guardare dal mio punto di vista di urbanista-trasportista il territorio e le trasformazioni che ne stanno modificando rapidamente i caratteri insediativi. Senza grandi pretese: osservare, cogliere i segni e le opportunità per far qualcosa di utile. Magari trovare qualche criterio per localizzare al meglio le future iniziative IUAV, come la progettazione del centro integrato di educazione, corredato di abitazioni e laboratori di educazione tecnica, prevista per il prossimo settembre.
Guardata da Kigali ogni cosa è stata diversa e sorprendente.
In primo luogo il paesaggio, lontanissimo dai miei stereotipi africani, con la sua continua alternanza di colline dolci e di fondovalle ricchissimi di acqua, talvolta paludosi. E con i suoi colori dove le strade sterrate tracciano segni rossofuoco nel verde della colline intensamente coltivate in piccoli appezzamenti ben curati. Dove le siepi antierosione disegnano ordinate geometrie secondo le curve di livello.
Poi è stato diverso abitare al villaggio S. Marco, che è un'isola forse di sapore un po' troppo europeo. Ma dove i bagni efficienti, il buon cibo e le buone zanzariere sgombrano da ogni preoccupazione e lasciano il tempo per discutere i molti problemi della costruzione, per lavorare e anche per fare amicizia con le magnifiche artigiane e i loro bellissimi gioielli di fibre vegetali intrecciate, con i sarti della scuola di formazione, con gli studenti di ingegneria del Kist che partecipano alla costruzione dei mattoni di terra cruda e poi dei muri. E dove soprattutto si entra in contatto con i meravigliosi bambini: sia quelli che vanno alla scuola elementare con le loro allegre divise gialle e blu sia quelli più poveri, senza divisa, che hanno imparato subito i nostri nomi e ci chiamano con divertimento al di là della rete di cinta, probabilmente trovando incomprensibili le nostre attività.
E poi Kigali: grandissima e dispersa, con grumi di concentrazione intensiva di torri vetrate, sedi delle multinazionali di dovunque, e con quartieri di case bellissime e ricchissime, ciascuna con il suo alto muro di cinta, ma senza spazi comuni e luoghi di rappresentanza civica. Una città dove periferie poverissime sono spinte dalle trasformazioni urbane sempre più lontano, in luoghi dai quali è sempre più difficile raggiungere a piedi i servizi essenziali: l'acqua, la scuola, il mercato. E con forme di urbanizzazione razionali forse, ma più simili ad aree di emergenza post terremoto che al nucleo di nuovi villaggi in formazione.
Una urbanizzazione di grandi distanze. da coprire a piedi oppure, se si hanno denari, con l'efficientissimo sistema dei bicitaxi, dei mototaxi o dei minibus del servizio urbano. Nugoli di minibus e nugoli di mototaxi privati in un paese dove l'automobile è appannaggio dei ricchi ma già si avvertono i segni della congestione ed ha avuto inizio la grande devoluzione di spazio e di risorse per il sistema delle strade automobilistiche. Dove forse sarebbe il momento di pensare al trasporto pubblico come strumento di strutturazione della crescita urbana, prima di arrivare ai ben noti problemi di congestione delle città europee.
Una riflessione merita infine la Maison du roi a Nianza, ovvero il sistema di capanne circolari dove il re, i suoi congiunti e i funzionari risiedevano e tenevano i rapporti con la popolazione. Un insieme straordinario, dove gli spazi interni ed esterni sono carichi di significati. Ogni apertura, ogni delimitazione ha il suo ruolo in una rappresentazione simbolica della struttura sociale e della vita quotidiana del re e del suo popolo. Ciascun recinto, ciascuna capanna è un fragile capolavoro di forme, di tessiture dei materiali, di intelligenza della loro lavorazione. Da questo punto di vista che impoverimento nel palazzo reale "donato" dai belgi: di piacevole decoro liberty ai nostri occhi europei, e di totale annullamento di significato dello spazio per i codici rwandesi!
Mi piacerebbe trarne un suggerimento per le prossime proposte progettuali IUAV: se realizzare nuovi insediamenti è comunque una necessità vitale per un paese di crescita demografica irruenta come il Rwanda, allora dobbiamo trovare il modo di progettare là, coinvolgendo gli abitanti ed entrando in confidenza con i loro modi di vivere, di avere rapporti sociali e di "sentire" il loro spazio vitale. Come ci hanno implicitamente suggerito anche gli ottimi funzionari dell'UNICEF che si occupano dei programmi di costruzione delle scuole.
Più difficile, ma quanto più utile e interessante!