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La questione etica nel design

La questione etica nel design
Lorenzo Imbesi

Già nel 1969 Victor Papanek avvertiva sulle responsabilità sociali e morali del design verso un “mondo reale” fatto di persone di carne che abitano, lavorano, viaggiano, giocano, vanno a scuola, invecchiano, si ammalano. Dalle pagine storiche di chi è considerato l’avanguardia del design a scala umana, emerge la considerazione etica che il progetto non è un lusso per strette élite tecnologiche, ma si deve interfacciare con le urgenze di un’umanità in eccesso ai limiti della sopravvivenza che affolla gli slum e i ghetti delle metropoli, riempie i campi profughi delle vecchie e delle nuove guerre, abita i centri di permanenza temporanea dell’emigrazione, è vittima in fuga da disastri naturali. La consapevolezza cioè dei bisogni e dei desideri della moltitudine degli uomini e delle donne che affollano il pianeta, quel 90% finalmente celebrato nei circuiti ufficiali del design, investe il progettista di una forma di responsabilità etica oltre la comune deontologia professionale.
Così, se la variabile ambientale ha costituito per molto tempo uno dei cardini del progetto sostenibile e l’ecodesign ne ha fissato i principi strumentali, più recentemente la riconsiderazione della dimensione etica oltre il profitto economico, apre al contempo ad un ventaglio di temi più sociali che ne complessificano l’analisi, ma anche gli strumenti e le opportunità.
La consapevolezza di vivere in un mondo più piccolo, la diffusività e la permeabilità delle nuove tecnologie dell’informazione e della conoscenza, l’elaborazione di nuovi stili di vita insieme alla consapevolezza problematica del ruolo del consumo, muovono nella direzione di una riconsiderazione critica di alcune delle categorie legate alla sostenibilità su cui si è basato per molto tempo il pensiero ecologista, unitamente ad alcuni refusi di stampo colonialista. Come il rapporto Nord-Sud del mondo, la questione tecnologica, la cultura del limite e il valore culturale dell’estetica.

Quanti Sud ci sono nel Mondo?
La mappatura geopolitica di stampo colonialista che ha costruito nel tempo il paradigma Nord-Sud, tagliando il globo in due come una mela, ha colorato allo stesso tempo gli archetipi binari in cui si riflettono centralità e marginalità, oppure sviluppo e sottosviluppo. Questo, che appare come una geografia statica, è il modello su cui si sono riferite per molto tempo le analisi sulle differenze e le disuguaglianze: i contrasti tra bianco e nero, civilizzato e selvaggio, sviluppato e sottosviluppato, occidentale e non occidentale sono i sistemi di esclusione che hanno informato nel tempo, se non legittimato, le pratiche di segregazione e subordinazione coloniali.
Ma qualsiasi analisi non può prescindere dal passaggio storico che ormai abbiamo vissuto dall’economia cosiddetta fordista: quella della fabbrica pesante e fortemente territorializzata e che organizzava il lavoro in strutture piramidali e gerarchizzate, l’economia che ha costruito le metropoli della modernità secondo diagrammi concentrici, polarizzando le decisioni e rendendo periferica la componente più subalterna. Questo movimento nella direzione del modello di sviluppo postindustriale, lascia emergere le nuove geografie economiche e produttive: in un mondo in cui la vecchia industria della catena di montaggio lascia il posto a nuove forme di organizzazione del lavoro più flessibili, permettendo alla produzione di svincolarsi dal territorio e decentrarsi, i vecchi paradigmi binari Nord-Sud e centro-periferia non funzionano più e la vecchia mappa del colonialismo non ce la fa a raccontare la complessità della contemporaneità. La nuova geografia economica taglia trasversalmente i confini del mondo e la vecchia linea di demarcazione fra Nord e Sud, segnalando al contempo nuovi fenomeni transnazionali di disuguaglianza estrema e marginalità.
L’immigrazione è uno dei processi fondativi di questa geografia mobile delle differenze che interessa soprattutto le grandi città con-dividendo nello stesso spazio produzione fisica e riproduzione sociale, potere finanziario e povertà. Infatti, la globalizzazione del mercato del lavoro coincide ed è da inscrivere come parte dello stesso processo di circolazione del capitale fuori da confini territoriali: flussi migratori e finanza globale concorrono insieme a ridisegnare attualizzando il progetto coloniale attraverso le nuove forme di disuguaglianza. Questi movimenti di fatto sconfinano il sistema delle differenze coloniali archetipiche, creando reti di nodi interconnessi che non si riconoscono più in un centro e che sono a loro volta legati alle rotte della mobilità di uomini e donne come dei soldi.
Altro fenomeno critico inedito, tra le metropoli globali che sono attraversate dai flussi dei mercati transnazionali che concentrano tecnologie e finanza, e quindi anche decisioni strategiche e scelte per lo sviluppo, oltre alle consolidate Tokyo, New York e Londra, è l’emergenza di altre città finora considerate colonie come Hong Kong, San Paolo, Città del Messico, Nuova Delhi, Città del Capo. Queste città emergono per la loro estensione incredibile in cui si accumulano infrastrutture e tecnologia, ma anche una straordinaria quantità di umanità che definisce la nuova geografia di centralità e marginalità, accentuando le differenze e le disuguaglianze e accendendo spesso il conflitto (Sassen, 1998). Se la stragrande maggioranza degli abitanti del Pianeta vivrà molto presto nelle grandi metropoli globali, e il trend non sembra essere destinato a diminuire, questi saranno gli scenari dell’emergenza su cui la produzione e il progetto si dovranno misurare.
Insomma, se è vero che il globale è ormai diventato il modo d’essere del locale, e sembra un processo irreversibile, la domanda è: ha ancora una qualche importanza parlare di Nord e Sud del mondo? O piuttosto, non è vero che possiamo rintracciare tanti Sud nel Nord come tanti Nord nei vari Sud del mondo? O anche tante periferie nel centro e tanti centri nelle periferie?

Tecnologie Critiche
In questi scenari, il tema delle nuove forme di centralità e marginalità incrocia un’altra delle categorie critiche rispetto alla sostenibilità, e cioè quello dell’accessibilità e dello sviluppo tecnologico. Qui, il problema non sembra più essere unicamente il trasferimento delle tecnologie nei Paesi in via di sviluppo, piuttosto il rischio è proprio la costruzione di una forma di “fordismo periferico” dovuto al decentramento nei paesi di nuova industrializzazione soprattutto delle lavorazioni più inquinanti; bensì riuscire a creare nuovi modelli di sviluppo che sappiano incrociare insieme innovazione tecnologica con intelligenze e capacità nella gestione dei processi, coinvolgendo così quel capitale immateriale in termini di conoscenze scientifiche e tecniche che nell’attuale società della conoscenza diventano un fattore competitivo importante. A prova di ciò sono da sottolineare i progressi nell’innovazione tecnologica al servizio della gestione dei flussi di informazione ottenuti attraverso l’investimento nelle risorse umane che hanno significato una possibilità di riscatto in molti paesi emergenti come nel caso dell’industria del software in India.
Se il cambiamento paradigmatico che stiamo vivendo ci conduce verso quella che è stata chiamata la società della conoscenza, allora saranno sempre più le capacità di accesso, ovvero il potere di accesso, e l’inclusione alle tecnologie e alla comunicazione a misurare le capacità delle società a svilupparsi autonomamente. Sarà quindi sempre più l’intelligenza e le capacità di gestire i processi a creare valore competitivo, piuttosto che il capitale immobile, e quindi sarà fattore discriminante l’inclusione a quel capitale immateriale consistente in conoscenze scientifiche e tecniche (Rifkin, 2001).
Le povertà, quindi, non si misurano più solo sui bisogni primari, ma anche sul potere di accesso a tutte le opportunità educative, culturali, informative ed economiche che la rete può offrire a costi minimi. Anche qui si misurano le nuove disparità e le differenze ingigantendo la sproporzione economica e sociale nel mondo.
Su questo tema, il pensiero ecologico ha una responsabilità storica nei confronti dell’innovazione tecnologica dei paesi meno sviluppati, considerandola spesso tout court l’unica artefice degli odierni disastri ambientali, a cui opporre la “soluzione finale” di un romantico ritorno allo stato naturale per ripristinare l’ecosfera. In questo, anche il Papanek d’annata che aveva scritto come “progettare per il mondo reale”, in alcuni punti non è esente da giudizi un po’ ideologici.
La stessa vicenda delle tecnologie intermedie, poi maturate in appropriate e sviluppate negli anni Sessanta e Settanta per i Paesi in Via di Sviluppo, ripropone una versione più povera e arretrata delle tecnologie provenienti dai paesi a capitalismo maturo, condannando così quello che era chiamato il mondo terzo ad una forma di subalternità ed all’eterno sottosviluppo, oltre a non disegnare un reale modello di sviluppo alternativo. Si è interpretata cioè per molto tempo la mancanza di risorse e la distanza dai paesi industrializzati, proponendo fasi transitorie che mediano le tradizioni indigene locali e gli impatti dei processi più avanzati nella direzione dell’adeguamento delle prospettive di crescita. È evidente, nell’analisi dell’appropriatezza delle soluzioni, il condizionamento riferito all’industria e alle tecnologie pesanti a cui si sottopone un processo di downgrading misto ad una riscoperta delle risorse e delle manualità locali per limitarne gli impatti energetici e ambientali.
L’avanzamento delle nuove tecnologie legate all’informazione ed alla conoscenza nella contemporanea economia dei servizi post-industriale, propone una condizione inedita, per le capacità che contengono di creare, attraverso la gestione dei flussi di informazione, nuove opportunità di sviluppo socialmente più sostenibili, conciliando al contempo produzione immateriale con intelligenza.
In questo senso, sono interessanti per il portato di innovazione tutti quei progetti di inclusione tecnologica e digitale, come ad esempio la dotazione di reti wireless gratuite in zone dove a volte è assente anche l’elettricità o la diffusione di computer che sappiano unire economicità e innovazione. Altrettanto, la diffusione massiva di tecnologie distribuite liberamente come sistemi operativi e software open-source, può essere in grado di rompere le logiche dei monopoli e delle multinazionali legate al digitale e propone di fatto un modello di sviluppo alternativo anche per le società più sviluppate. Insomma: se nel prossimo futuro milioni di uomini e donne nei luoghi più deboli del mondo utilizzeranno queste tecnologie così da fare “massa critica”, utilizzandone i linguaggi, non si dovranno per una volta adeguare le società più sviluppate a questi protocolli più diffusi e comuni, per lavorare, comunicare, essere presenti nel mondo?

Desideri Politici
La terza categoria critica coinvolge direttamente la questione estetica che trova connessioni soprattutto con il concetto di desiderio. Uno dei teoremi che hanno segnato a lungo la filosofia ecologica è il concetto di limite che Hans Jonas ha sviluppato attraverso l’etica della responsabilità verso le generazioni future, fornendo anche alla cultura del progetto una metafora straordinariamente efficace (Jonas, 1984). Insomma: la scomparsa definitiva del globo e la salvezza della vita naturale può essere evitata in extremis soltanto accettando ancora più che un’etica, una vera morale del sacrificio, la cui risposta estetica si configura come una forma di minimalismo programmatico di stampo calvinista, quando non si afferma una forma di cautela progettuale che spesso confluisce in una politica del “non fare” ed all’assenza di progetto. Non è forse un caso che molti dei filoni di ricerca sviluppati negli ultimi anni, sia stato legato alla normativa ambientale che spesso ha creato una forma di distanza dalla cultura del progetto.
Contestualmente, la risposta è stata spesso la diffusione di un’“estetica del rottame”, come la chiama Ave Appiano, diretta erede dell’arte povera e minimal, sfiorando spesso anche il trash, che ha privilegiato una forma ed un’espressione tra il dimesso e il pauperismo che, nella sua debolezza, ha lasciato un segno forte di pulizia morale ed estetica. In ciò, il desiderio non di rado è trattato come una minaccia da esorcizzare perché causa di spreco improduttivo, oltre la pura conservazione della vita.
Sulla stessa linea, Georges Bataille aveva chiamato lo spreco “la part maudit”, la parte maledetta, connettendola al concetto di dépense, interpretando così lo scarto improduttivo ottenuto da un’azione di consumo e vissuto come un atto di sacrificio e quindi di perdita, ma che contemporaneamente svolge una funzione sociale nei riti tribali (Bataille, 1967). In cambio della salvezza e della redenzione, i culti sacrificali/sacrali impongono cioè una perdita, spesso sanguinosa, che ha un alto valore simbolico e collettivo. La religione dell’utile sembra porsi come l’unica sfida possibile ad una civiltà centrata sull’abbondanza e il lusso che non possono che provocare spreco e distruzione.
Al contempo, una delle manifestazioni con cui la cultura del progetto si deve confrontare, è la centralità dei fenomeni di consumo nelle società contemporanee e dei nuovi significati critici che assumono, segno del superamento delle teorie utilitaristiche del bisogno. Il consumo smette di essere un’attività secondaria alla produzione e al mercato, lasciandone emergere le valenze più cognitive e produttrici di significato. Si parla in questo senso di consumo produttivo e della consapevolezza critica dei valori sociali, relazionali, cognitivi e comunicativi delle merci nella convergenza tra produzione e consumo e nella prospettiva di nuove forme di partecipazione, stili di vita, responsabilità, autoproduzione. L’estetica quindi entra in ambito politico per rivendicare un “diritto all’estetica” che includa anche valori etici e di solidarietà e non condannare ad un sottosviluppo strutturale tutti gli uomini e le donne che vivono nell’esclusione e nell’indigenza.
La “cultura del limite” e l’“estetica del sacrificio” dovrebbero in questo senso essere riconsiderati alla luce degli effetti della globalizzazione e della penetrazione dei media intorno al mondo che hanno prodotto di riflesso la diffusione degli stili di vita ed al contempo una forma di consapevolezza e di educazione estetica anche attraverso i luoghi e gli strati sociali più remoti. Perfino nelle favelas più nascoste spuntano le antenne paraboliche che spesso da sole svolgono il ruolo di informare ed educare connettendo a distanza persone e luoghi, ma altrettanto promuovendo nuovi status di consumatori insieme all’aspirazione verso gli standard occidentali. Sedotti eppoi abbandonati!
Sarà proprio l’estetica, intesa come interpretazione cognitiva di sensibilità e culture condivise, che si concentrerà la sfida per il progetto etico, fornendo scenari del quotidiano ed immaginari formali per un nuovo modello di sviluppo che integri anche una forma di seduzione. Creare un’estetica per l’etica in questo senso renderà accettabili e riconoscibili le “buone” scelte anche come scelte “belle”. Insomma: quale forma per l’etica?
Il diritto all’estetica si connette così al concetto di desiderio che può essere liberato dalla teoria lacaniana della mancanza che nasce dallo scarto tra bisogno e domanda. Rileggere il desiderio come energia liberata dall’idea di assenza costruita tra privazione e bisogno, affranca anche le pratiche di consumo dal dominio del mercato. Il consumo cioè può assumere le valenze di un atto creativo in grado di rielaborare attivamente forme e significati, superandone la logica comune di accettazione passiva del bisogno indotto.
Il desiderio si connette così all’idea di progetto, un atto creativo cioè capace di produrre realtà e felicità nel realizzarlo: una volontà di potenza, pulsione irriducibile nel colmare lo scarto tra pensiero e realtà e nella capacità di sognare svincolata dalla necessità: “se il desiderio è mancanza, è anche tristezza. Al contrario, la potenza piena del desiderio è virtù e saggezza.” (Deleuze, Guattari, 1975) L’estetica entra in ambito politico.