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Etica e design

Etica e design
Dario Scodeller


Appunti per la tavola rotonda in occasione di Africa, cinema etica e design
Videoteca Pasinetti, Venezia, 4 settembre 2010

Utilizzando la consumata, ma sempre valida definizione del De Fusco, secondo il quale per parlare di design bisogna ragionare di progetto, produzione, distribuzione e
consumo, per parlare di etica del design dovremmo poter parlare di etica del progetto, di etica della produzione, cioè del lavoro, di un’etica della distribuzione e di un’etica del
consumo, cioè un’etica del mercato.
Il design, per sua stessa definizione, è portatore di una componente anti-etica.
Tra i molti significati inglesi della parola design, come sottolinea Wilem Flusser nel bel libricino della Bruno Mondadori Filosofia del design, ci sono anche quelli di “astuzia” e
“insidia”: anche in italiano usiamo ancora la parola disegno in luogo di progetto per dire disegno criminale, disegno eversivo. Il designer sarebbe, dunque, secondo Flusser,
anche “un subdolo cospiratore che tende le sue trappole”.
Ogni artificio è anche una trappola: un sacchetto per la spesa, un casco da motociclista possono nascondere altrettante insidie se non viene comunicato il loro grado di
sicurezza o pericolosità. Gli inglesi, più consapevoli di noi che il design tende trappole, scrivono ogni tanto nei sacchetti per la spesa This bag is not a toy (questo sacchetto
non è un gioco) perché ci muoiono ogni anno dei bambini soffocati. Basterebbe fare, per legge, due buchi sul fondo.
Il rapporto tra etica e progetto, o tra etica ed estetica, nel corso del ‘900, entra quasi subito in crisi. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, il più grande, veloce, lussuoso
transatlantico del mondo, il Titanic affonda e nel naufragio muoiono 1500 delle 2200 imbarcate.
Non c’erano scialuppe di salvataggio a sufficienza. Ce n’erano 16 e, se caricate bene, avrebbero potuto portare in salvo la metà delle persone. L’ingegnere
Alexander Carlisle aveva previsto 64 lance di salvataggio e si scontrò con l’armatore, il quale non voleva rovinare con le scialuppe il bel profilo della nave, convinto che il Tianic
non sarebbe mai potuto affondare, in virtù dell’innovativa tecnologia a comparti. Dunque un vero conflitto tra tecnica etica ed estetica.
Oggi l’etica del progetto nel campo del design, più che con la sicurezza, data per scontata, ma spesso disattesa, sembra avere a che fare con la necessità per i designer
di tener presenti i grandi problemi del pianeta: sostenibilità, uso delle risorse.
Ma l’etica del progetto dovrebbe poter occuparsi maggiormente del significato delle cose e del senso dell’abitare dell’uomo. Si possono fare degli oggetti ecosostenibili
perfettamente inutili o stupidi o insignificanti e quindi dov’è in questo caso l’aspetto etico? Qui c’è però un problema di cultura del progetto.
L’eccesso di cultura tecnica rende questi progettisti culturalmente preparati a gestire progetti complessi?
Per concludere questo tema rimango convinto che il progettista per poter essere portatore di istenze etiche nella genesi di un nuovo prodotto dovrebbe poter controllare
anche come questo prodotto viene fabbricato e venduto, cosa abbastanza difficile o improbabile.
Infatti i progetti di Diébèdo Francis Kéré hanno un alto contenuto etico perché sono gestiti dalla comunità. In questo caso l’etica del progetto sostituisce la politica sociale.
Non a caso parlando del progetto politico di Cesena Giordano Conti parla di “senso di appartenenza” che è il senso della comunità.
Dunque l’etica (che non è nient’altro che un codice di comportamento) funziona se i valori sono condivisi e partecipati.
Quindi bisogna che i designer si diano codici di comportamento condivisi.
La domanda allora, nel parlare di etica del progetto potrebbe essere:
quali sono questi principi inderogabili, questi valori che i designer dovrebbero condividere nell’applicarsi ad un progetto?
L’etica della produzione.
Più il lavoro si sposta verso est o dicono a quello nostrano che è in concorrenza con l’est (far-est o near-est) cioè, paradossalmente, con i paesi che sono appena stati o
dicono di essere ancora comunisti, più l’etica della produzione, o del lavoro, sta andando rapidamente in crisi. Cioè più i diritti dei lavoratori occidentali si confrontano col mercato globale, invece che diffondersi i diritti, questi diritti vengono meno. Vengono fatti venir meno. Il ministro Giulio Tremonti, pochi giorni fa, al meeting di Comunione e
Liberazione di Rimini, ha detto più o meno che “ per i diritti ideali in una fabbrica ideale non c’è più posto nel mercato globale, si rischia di ritrovarsi con i diritti ideali e non avere più la fabbrica ideale.” Naturalmente nessuno di loro politici adegua il proprio stipendio di parlamentari e orari di lavoro a quello di Cina o Romania.
Quando c’è di mezzo la grande industria di diritti almeno si discute, si tratta, si vota, (a proposito, quanti si sono letti l’accordo Fiat di Pomigliano per la produzione della nuova
Panda? Tre turni giornalieri di otto ore a rotazione, compresa la notte, dalle 22 di domenica sera alle 06 della domenica mattina. Trent’anni fa questi era l’organizzazione
del lavoro solo degli operai degli altiforni, che non potevano essere spenti.) ma nella piccola e media qual è lo stato dei diritti?
I capannoni del nord-est, i mitici capannoni della piccola industria del nord-est si stanno piano piano svuotando. Le aziende hanno delocalizzato. Dicono gl’industriali che qui
rimarrà la testa, la parte direttiva, quella ideativa: il design, appunto.
La mia domanda è: è possibile un design lontano migliaia di chilometri dalle fabbriche?
Quale feed-back sarà mai possibile? Il modello produttivo del design italiano basato sul rapporto tra designer, produttore, artigiano-operaio sarà ancora competitivo nella
delocalizzazione. L’etica di fabbrica non ha insegnato qualcosa anche al design? E il design potrà fare a meno così tranquillamente dell’etica di fabbrica?
Per etica intendo anche un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro che non è solo e sempre catena di montaggio, ma molto spesso intelligenza applicata al
miglioramento delle cose, al modo di farle e di produrle.
Come ricordava Promo Levi in uno dei pochi romanzi italiano che parli del lavoro, La chiave a stella: “Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle
mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore e rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto
dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.”
Etica della distribuzione e del consumo.
Primo esempio:
Un’etica della distribuzione e del consumo dovrebbe preoccuparsi, oltre che di qual è il prezzo equo delle cose, anche di qual è il mercato per le cose che noi progettiamo e
pensiamo. Tempo fa due designer, uno tedesco ed uno italiano: Stephan Augustin e Albero Meda, partendo da intuizioni diverse hanno ideato due sistemi per rendere
l’acqua potabile attraverso un sistema di sterilizzazione fatto con dei contenitori in plastica in materiale plastico. Hanno, insomma, provato ad uscire dal proprio e pensare
per il cosidetto “altromercato”. Pubblicati in tutte le riviste, i prodotti sono spariti dall’attenzione collettiva. Ho cercato ovunque, ma non mi sembra che nessuno dei due
progetti siano ancora riusciti a trovare un produttore e un distributore.
Perché? Perché all’industria non interessa produrre per le esigenze di mercati cosidetti emergenti. E come ignora questo problema, il mercato e di conseguenza i designer, ne
ignoramo molti altri di quelle popolazioni.
Dunque ciò che è possibile a Kéré con le scuole è impossibile per un prodotto così apparentemente semplice. Ma lui adatta il progetto alla dimensione della comunità.
Secondo esempio:
Nella vetrina di un negozio equo e solidale vedo dei bellissimi sandali, credo peruviani.
Entro e chiedo se hanno un 45 che non è più un numero introvabile.
Mi rispondono che le taglie sono limitate.
Ecco un esempio di un progetto etico che nel confrontarsi col mercato discrimina per questioni di pura vendibilità.
Le grandi aziende, negli ultimi anni, sono state sollecitate dalle associazioni umanitarie a prendere posizione in merito all’utilizzo del lavoro dei bambini e del loro sfruttamento.
Lo ha fatto Ikea, credo sia stata costretta a farlo Nike e altre aziende. Ma non è l’industria o la distribuzione nel suo complesso che si è data una regola etica. E’ come
se ci fosse uno sciame di Geenpeace che sollecita ciascuno dal proprio punto di vista e ciascuno con la propria Onlus e la caccia alle balene o l’estinzione della Tigre del
Bengala stanno sullo stesso piano (ed in realtà un piano comune c’è ed è quello dello sfruttamento) della povertà o della carenza d’acqua.
Cosa può fare il designer? Come può orientarsi sul piano dell’aderenza a progetti eticamente validi? Deve, in sostanza, il designer per occuparsi di questioni eticamente
rilevanti essere una persona culturalmente attenta alle “emergenze etiche”, oppure necessariamente trasformarsi in “missionario laico”, come sembra voler fare Gaddo
Morpurgo col suo progetto per il Rwanda, imitando uno dei più grandi benefattori non violenti del continete africano, l’esploratore friulano Pietro Savorgnan di Brazzà.
Settembre 2010