Di necessità e di virtù: la storia di una valigia di legno
Filippo Mastinu
Questa storia inizia con la costruzione della scatola di legno che avrebbe trasportato in Rwanda il modello del padiglione che avremmo costruito.
Mi piace parlare di questa scatola perché tra di noi è quella che ha viaggiato di più e che è stata più tempo in Africa, trasportata ad ogni viaggio da qualcuno di noi.
Non vi parlerò di Africa e del nostro lavoro ma di africani.
Arriviamo a Kigali nel tardo pomeriggio, è buio. La valigia di legno è con noi.
Il progetto è stato preparato e verificato in Italia, pensando all'Africa come la immaginavamo prima di esserci dentro. Avevamo un programma di lavoro giornaliero e obiettivi da raggiungere.
Avremmo dovuto costruire in quindici giorni la struttura principale del padiglione, consegnandola ai gruppi che ci avrebbero sostituito per completare il lavoro.
Ma c'è sempre qualcosa che non funziona, qualche ritardo, un imprevisto.
La mattina apriamo la valigia di legno e finalmente il piccolo modello in scala e l'aria di Italia escono alla luce, mischiandosi all' Africa. Il modello è integro e può essere mostrato a tutti.
La valigia ha fatto bene il suo lavoro. Intanto si riempie di carta e di altri ritagli del viaggio.
Ci osserva da un angolo della stanza.
Presentiamo il lavoro ai responsabili del centro che ci ospita e abbiamo subito un ostacolo: le fondazioni che avevamo immaginato di auto costruire discrete ed invisibili non sarebbero state in grado di garantire la solidità e la durevolezza necessaria. Dobbiamo fare un lavoro diverso e più impegnativo, con gli stessi requisiti che avrebbe qualsiasi nuova costruzione, anche in Africa.
Quindi nuovo progetto in pietre e calcestruzzo, ficcato dentro la terra per sempre.
Gli operai africani iniziano il lavoro qualche giorno dopo, passate le piogge. Sono tanti, quindici forse di più tra uomini e donne. Tutti si danno da fare, gli uomini scavano la terra ed organizzano il lavoro, le donne, giovani, scalze, sembrano delle imperatrici senza niente. Siamo tutti affascinati da questo modo di lavorare.
E' un lavoro duro, faticoso e lento. Ogni tanto gli raggiungo e fumo con loro, faccio qualche foto.
Tutto a mano, assolutamente. Si scava la terra col picco e la pala e la si trasporta lontano, oltre il perimetro tracciato.
Intanto noi lavoriamo alla costruzione della struttura, all'ombra della sala che ci fa da mensa e da officina.
La valigia è con noi ed il suo coperchio è diventato un piano di lavoro.
Lei è piena di corteccia di banano che ci servirà per il lavoro.
Siamo felici, immersi nei suoni dei canti e dei tamburi che ci svegliano prima dell'alba.
Le donne del cantiere hanno smesso di trasportare terra, adesso lo scavo è finito e si va avanti a riempirlo di pietre, grandi e piccole, ordinate in fondo alla trincea. Vado sempre a trovarli.
Tutti lavoriamo, italiani e africani, si impara la lingua locale. Urufungusu. Tutti ridono.
Si pensa già a come avremmo riempito la nostra valigia di legno per il ritorno. Lei ci ascolta, ci asseconda.
E' passata una settimana, la costruzione della fondazione è in ritardo, anche il nostro lavoro all'ombra.
Cerchiamo soluzioni, correggiamo il progetto e la tabella di lavoro, tutto si sta concretizzando ma con ritmi diversi, ritmi africani. Diversi da noi in ogni cosa, sembrano più sereni.
Chi lavora alla fondazione cambia spesso, cambiano le donne, credo perché ci sia da lavorare per tutti.
Poco ma per tutti. Sono precisi in ogni cosa, pietra vicino a pietra, ferro e sudore.
Finalmente il loro lavoro è finito, sono passate quasi due settimane. Noi abbiamo sempre visto loro al lavoro, incantati dalle regine scalze. Un po innamorati.
Loro non hanno capito ancora cosa sarebbe successo dopo, abbiamo lavorato all'ombra e abbiamo mantenuto il segreto del nostro lavoro.
E' venerdì, i tamburi della chiesetta vicina suonano da qualche ora. La valigia si prepara a ripartire con me il giorno dopo.
La fondazione è pronta per ospitare il padiglione, i pilastri in bamboo e le grandi ali della copertura.
Siamo pronti anche noi, ridimensionati nel ritmo e negli obiettivi, siamo diventati un po africani e ci adattiamo a quanto siamo stati in grado di fare, comunque felici. Un po più stanchi.
Sappiamo come trasportare ogni cosa, siamo comunque molte braccia, abbiamo corde africane e bulloni italiani, siamo euforici e pensierosi.
Abbiamo mezza giornata per tirare su tutto ed assicurarlo alla fondazione e alla terra, pronto per essere consegnato agli altri.
Improvvisamente tutto cambia. Il padiglione è già costruito, è costruita la sua idea ed il suo segno sul terreno. Le fondazioni costruite da africani per noi sono già il padiglione.
La fatica delle donne, l'esperienza degli uomini, la serietà con la quale hanno lavorato, il nostro progetto ed il rispetto che loro gli hanno dato, hanno costruito il padiglione.
Il valore che ha adesso è eterno e dal Rwanda viaggia ed arriva in Italia, come la valigia di legno.
Quella che è nata come una necessaria alternativa alle nostre prime idee, imprevista e faticosa, è diventata il senso di ogni cosa, la virtù che sosterrà il progetto del padiglione ed il nostro grande amore per il Rwanda e per questa gente.
Non ci resta che tirare su la struttura, temporanea, fragile ed effimera. A sera abbiamo terminato, siamo moltissimi. Tutti orgogliosi. Qualche operaio ci ha guardato da lontano ed ha finalmente capito il segreto.
La valigia che sapeva ogni cosa adesso è pronta a ripartire. E' stanca, soddisfatta.
Sa che presto ritornerà con qualcuno, piena di materiali e di idee.
Adesso ha l'aria africana, la porta in Italia con me.
Gli auguro buon viaggio