Nuovi gioielli partendo dalle tecniche tradizionali ruandesi
Alice Cappelli
“In una differente rete di relazioni sociali si puo creare una differente cultura materiale”
Gui Bonsiepe
L’artigiano rimane ancora una delle professioni che affascinano l’uomo. Il suo operare si presenta come un linguaggio formulato tra noi e la natura. Ogni parte del mondo presenta il proprio artigianato, a seconda dell’ambiente circostante e delle materie prime disponibili.
L’uomo con la sua tecnica dialoga con la natura dando vita a prodotti che raccontano storie. Sono la materializzazione di creatività, tradizioni, riti, culture, bisogni e nella loro diversità uno stesso materiale può essere interpretato dando vita a forme diverse per ogni paese.
La cultura materiale rimane cosi un vero e proprio veicolo per molti aspetti della cultura immateriale di qualsiasi popolo.
L’artigianato in Rwanda si caratterizza molto nell’uso di fibre naturali e la produzione di Vannerie rimane ancora oggi la più caratteristica espressione materiale con finalità sia estetiche che funzionali. Una grande originalità ritrovata nella storia, in prodotti di tipo utilitario e artistico fino all’espressione massima architettonica della Capanna Reale che racchiude tutta l’arte della Vannerie rwandese.
Ricca di motivi decorativi essenzialmente geometrici, ricca nella grande varietà di fibre naturali nelle tecniche e nelle forme, è tutt’ora destinata a diversi usi e gioca un ruolo socioeconomico molto importante. L’influenza della modernizzazione, dettata soprattutto dall’importazione della civilizzazione occidentale, ha infatti avuto un grande impatto sui mestieri tradizionali, ormai emarginati all’interno della realtà rurale del paese e appresi all’interno di centri di apprendistato, in cooperative o associazioni di donne. Queste sono rappresentative di una risposta autonoma e collettiva per affrontare la propria situazione sociale, trasformando così molti settori, tra cui l’artigianato, una delle principali forme di sussistenza e fonte di reddito.
Si comprende quindi l’importanza delle cooperative come reale punto di partenza per una possibile creazione di rinnovate figure professionali partendo dalle loro capacità manuali tradizionali, mantenendo costantemente un rapporto tra il luogo, la sua storia e la sua identità.
L’Atelier Rwanda pone uno dei suoi principali obiettivi a favore di quella che possiamo definire un economia rurale, partendo dalle risorse umane e materiali del territorio con lo scopo di innovare e diversificare l’artigianato. Riscoprirne il suo potenziale non solo dal punto di vita economico ma sociale, ponendo i suoi attori come detentori di una cultura rappresentativa del paese e ponendo il Design come mediatore strategico tra cultura materiale e innovazione.
Un progetto di collaborazione in cui Università, Design e Artigianato mettono in gioco la loro potenzialità in un processo creativo come luogo di incontro tra culture che dialogano, creano, evolvono rafforzando il know-how dei soggetti e l’identità territoriale.
La richiesta di un sistema efficiente di formazione è stato identificato in primo momento di ricerca focalizzando l’attenzione sulla produzione di Vannerie, rimasto uno dei pochi mestieri tradizionali che persiste e conserva a tutt’oggi tutte le sue tecniche e i sui strumenti. L’Agaseke ne diventa il simbolo per eccellenza come uno dei prodotti caratteristici e rappresentativi dell’artigianato, della cultura e società rwandese tanto che la sua immagine la possiamo ritrovare nel simbolo stesso della Repubblica di questo paese.
L’idea del gioiello nasce identificando il bisogno di riqualificare e innovare una delle tecniche realizzative dell’Agaseke, l’Ububoshyi bu’uruhindu, salvaguardando non solamente il prodotto finale ma la maestria, l’energia e la pazienza che la vannerie e i suoi creatori esprimono in oggetti di una raffinatezza e accuratezza unica nel suo genere. Il passaggio è quasi insito nella tecnica stessa : lei stessa diventa gioiello rappresentativa di un arte autentica del suo genere di cui non è la materia a dare valore ma la storia della sua creazione. Artigiani che da generazioni si tramandano tradizioni, saperi e culture materiali a fronte di una povertà di occasioni, in termini di visibilità e mercato per il proprio lavoro con la risultante perdita di alcuni, spingono il design a sperimentare con la tecnica stessa per valutarne e riqualificarne le potenzialità.
L’ Atelier Rwanda, dopo una prima ricerca in loco nel 2008, svolge la fase progettuale in Italia ipotizzando con prototipi una serie di gioielli. Il primo workshop in San Marino vede un lavoro di squadra tra studenti e professori, ragionando sulla tecnica e su come, da lunghi fili di ‘Itaratara’ sfibrati, raggruppati in piccoli fasci e cuciti assieme con sviluppo ad aspirale, si possano ricavare nuove forme di cui il corpo ne diventa il fruitore.
“Il tema proposto agli studenti è stato “Natura e Artificio. La Regola e la Forma”. […] Attraverso l’individuazione di una regola generatrice è stato chiesto agli studenti di far assumere al gioiello, oltre che il suo naturale carattere ornamentale, anche quello di configuratore ed estensore dello spazio intorno al corpo, un’architettura cui il corpo contribuisce a dare vita e significato.”
(Cfr. Massimo Brignoni, Applicazione delle lavorazione tradizionali, tipo Akaseks K’uruhindu, per prodotti ad alto valore commerciale, SMUD 5, San Marino Aprile 2009)
La proposta ha dato vita a molti risultati e tutti diversi tra loro con un approccio di sperimentazione sulla tecnica e/o sulla forma ma con un unico obiettivo: valorizzare un materiale tanto povero e condurlo all’interno della gamma di prodotti ad alto valore commerciale e simbolico.
I disegni si sono tradotti in prototipi in cui colla e spago hanno preso inizialmente posto dell’Uruhindu e dell’Intaratara, il rispettivo strumento e fibra naturale rappresentativi della tecnica Ububoshyi bu’uruhindu.
L’Atelier Rwanda si sposta così in Rwanda per il II workshop nel settembre 2009, che in realtà è il primo direttamente in loco e il cui svolgimento ha rivelato così il punto di forza del progetto stesso: lo scambio diretto e reciproco di conoscenze tra le artigiane e gli studenti. Una formazione proposta e basata sulle competenze degli attori locali, punto di partenza per la circolazione di saperi, con la risultante specializzazione degli artigiani ma con un arricchimento culturale per gli studenti unico nel suo genere. La difficoltà riscontrata per le diversità culturali scompare nello stesso momento in cui si comprende come le competenze si completano nell’atto creativo e progettuale. Una formazione reciproca per un linguaggio complementare e non primario in cui la visione razionalista di un Designer si unisce alla carica simbolica del lavoro artigianale, donando un’anima a questi oggetti unica nel suo genere.
I prototipi realizzati a San Marino si sono rivelati molto utili come punto di incontro per dialogare e far comprendere le nostre proposte alle artigiane. La fase di sperimentazione che ha coinvolto tutti, e svolta per comprendere, rilevare e risolvere problematiche nella realizzazione dei gioielli, ha dato vita a nuove forme legate alla tecnica. I triangoli ne sono un esempio eclatante, come i dettagli delle chiusure e i collegamenti realizzati tra le forme che compongono le collane. Ma i momenti forse più emozionanti si ritrovano in piccoli gesti delle artigiane come il disegno realizzato da Annuarite in cui rappresenta se stessa con orecchini e collane che ripropongono il triangolo che stava realizzando; o il piccolo prototipo di Elisabeth svolto con lo spago per cercare di comprendere i disegni e per tradurli con il proprio linguaggio manuale.
Una nuova forma, con cui si è chiesto all’artigiano di approfondire le sue conoscenze della tecnica, nasce invece da una progettazione avvenuta direttamente in loco tra studenti italiani e rwandesi per la realizzazione di un braccialetto: il Möbius. Una forma divenuta emblematica per il progetto stesso, in quanto il suo sviluppo non presenta due facce distinte ma un'unica superficie continua, simbolo della contaminazione reciproca resa possibile da progetti di collaborazione come l’Atelier Rwanda.
Cercare una conclusione all’interno di questo progetto si rivela quindi difficile ed errato. La forma di sperimentazione che lo contraddistingue lascia aperte possibili strade e non a senso unico. Il recupero e la salvaguardia dell’identità territoriale restano comunque la sfida principale per affrontare un reale sviluppo in armonia con la società e la sua cultura materiale. Il sano confronto conferisce ai sistemi locali vitalità e competitività ponendo il Design come filo conduttore tra tradizione e modernità, tra locale e globale.
Una cosa è sicuramente certa: l’Atelier Rwanda unisce nel suo lavoro quelle che sono le potenzialità di Università, Design e Artigianato rivelando così la loro importanza per la capacità di interagire simultaneamente con la cultura materiale e la società, con la formazione e la ricerca, come veicoli culturali per innovare la conoscenza e imparare a conoscere l’altro.
Il gioiello come pezzo del corpo e come narratore di una storia: l’incontro di culture il cui dialogo gli ha dato vita.
Le fibre vegetali come materiale espressivo di un lusso quasi ormai dimenticato: i valori tradizionali appartenenti al territorio.
Il gioiello diviene cosi protagonista in uno dei workshop di “Atelier Rwanda, laboratorio di ricerca e di progetti innovativi di design in Africa”, all’interno del quale studenti italiani, rwandesi e quattro artigiane hanno dialogato tra loro immaginando, sperimentando e realizzando 7 collane e 1 bracciale.
Rientra tra le attività sviluppate nel programma di collaborazione scientifica tra l’università IUAV di Venezia e il KIST di Kigali. Un corso di formazione per giovani artigiane sull’innovazione e diversificazione dei prodotti artigianali ruandesi, con lo scopo di valorizzare la lavorazione legata alle fibre vegetali e migliorare le capacità produttive locali, rafforzando il ruolo e la professionalità delle artigiane stesse.
Il programma si è suddiviso in 2 workshop le cui fasi hanno previsto una prima parte di ricerca, recupero e ideazione ed una seconda parte di contaminazione, sperimentazione e realizzazione in loco.
Il I workshop è avvenuto nel Settembre 2008 presso il corso di laurea in Disegno Industriale dell’Università degli studi di San Marino. Gabriele Gmeiner e Massimo Brignoni insieme a studenti di Design hanno interpretato la tecnica e ideato una serie di gioielli.
Un approccio più legato alla forma tradizionale e alla sua ripetitività in giochi geometrici tridimensionali, per il gruppo di Gmeiner e un approccio più legato alla sperimentazione sulla tecnica e il suo potenziale, per il gruppo di Massimo Brignoni. Una progettazione il cui frutto si cogliere con i prototipi scelti da una serie eccellente di risultati capaci di raccontare questa prima fase di libera interpretazione, seguita dalla realizzazione direttamente in loco.
Il II workshop svolto nel settembre 2009 ha portato studenti e professori in Rwanda ove si è svolto il primo corso di formazione per artigiane con uno scambio diretto e reciproco degli attori locali e europei per la realizzazione dei gioielli precedentemente e localmente idealizzati, tra cui il bracciale Möbius.
Un'unica fibra, Intaratara di origine palustre, e un unico strumento, Uruhindu, hanno dato vita a una serie di gioielli capaci di raccontare un esperienza unica nel suo genere. Il colore naturale della fibra volutamente si incontra con la colorazione nera come simbolo dell’unica cosa che ci differenzia: la pelle. Nel rispetto della tradizionale produzione di Vannerie in cui, il nero, Ibyiro, e rosso, Itaka, ne caratterizzavano l’artigianato in quanto prodotti da materiale di tipo naturale, ovvero il carbone e la terra. In entrambi i casi venivano mescolati con resina di banano e applicati direttamente sulla fibra. Oggi le polveri pre-composte ne hanno preso il posto aprendo la strada ad una grande quantità di colori, ma sono sempre gli artigiani ad occuparsi della tintura di questa fibra. L’immersione dell’Intaratara nell’acqua colorata, coperta con foglie di banano e in seguito asciugata al sole, rimane uno dei passaggi della realizzazione di questi gioielli e come tale ha affascinato studenti e professori. Un altro tassello di vita quotidiana andava a comporre il puzzle definitivo rappresentativo di uno dei mestieri tradizionali che persiste e conserva a tutt’oggi tutte le sue tecniche e i sui strumenti: la produzione di Vannerie.
Atelier Rwanda si arricchisce così vivendo direttamente a contatto con la realtà locale, osservando, immagazzinando, catalogando, per poi ideare, sperimentare, creare e trasportare in Italia un bagaglio narratore di un incontro reso materialmente dalla leggerezza e raffinatezza di questi gioielli.