Dario Scodeller
Design per il territorio
“I lavori più scadenti, prima o poi, verranno eseguiti dai popoli meno progrediti. Che fare? O saremo un popolo che saprà imporre al mondo il proprio gusto e il proprio stile, oppure se ci limiteremo a spremere dalla carne, dal sangue e dal ferro gli articoli di massa più economici, rivaleggeremo con i popoli orientali nel soffrire la fame.”
Così, con sprezzante realismo, nel saggio L’arte nell’epoca delle macchine, Friedrich Naumann pone, nel 1904, una delle questioni chiave del rapporto tra progetto e industria del XX secolo. La frase è ancor più significativa se si pensa che, tre anni più tardi, a Monaco, Naumann è tra gli artefici della nascita del Werkbund, l’associazione che, con il suo dibattito e le sue iniziative, fornirà gran parte dei temi da cui si alimenterà l’utopia del Moderno. Per Naumann, in definitiva, il famoso “valore aggiunto” del progetto era l’unico mezzo di cui l’Occidente (la Germania dell’età guglielmina) disponeva per evitare la fame nella competizione economica mondiale: il nostro disegno industriale (anche quello del Bauhaus) nasce, non dimentichiamolo, con questo imprinting.
Relegata per decenni nei bollettini della FAO o delle associazioni missionarie cattoliche, la parola fame è ricomparsa, in questi ultimi anni, nel glossario dei media. Povertà, impoverimento, fame. Dopo 35 anni in cui la parola petrolio ha dominato le code dei telegiornali, la parola grano riappare, e non è un bel segno. Tuttavia, essa ci ricorda che non esistono solo le città e le metropoli, ma, se lo avevamo scordato, ci sono vasti territori del pianeta fatti di campi coltivati e persone che vivono di agricoltura. Non l’agricoltura intensiva e meccanizzata, in dubbio tra il produrre materia prima per i corn flakes o per i biocarburanti. Si tratta, invece, spesso, di un’agricoltura di sussistenza, i cui prodotti non riescono a competere, se raggiungono il mercato, con quelli importati dai paesi occidentali, i cui prezzi sono “drogati” dai contributi statali. La maggior parte delle persone che non ha accesso al flusso globalizzato delle merci abita questi territori agricoli: i villaggi fuori dal villaggio globale. Disegnare per il resto del mondo, per il “Sud” del mondo, significa riprendere consapevolezza dell’esistenza del territorio, del fatto che la città ed i suoi oggetti non possono condizionare tutta la riflessione sul progetto. Significa sapere che esiste una grande area di territori e di popolazioni che, oltre a non avere accesso ai servizi e alle merci più comuni per l’Occidente e per l’Oriente metropolitano, non ha nessuno che pensa ad oggetti che migliorino queste condizioni.
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Mobilità e riuso.
Dopo la Vespa, progettata alla fine del 1945 da Corradino D’Ascanio, nel 1947 la Piaggio mette in produzione un oggetto simbolo del design per il territorio: l’Ape. L’enorme utilizzo di questo piccolo motocarro, oltre che in Italia, anche nei paesi del sud-est asiatico (in India venne anche prodotto su licenza) dimostra che il design, persino quello dei veicoli a motore, può diventare un elemento straordinario di trasformazione della vita economica di un paese. Ancor’oggi l’acquisto di una bicicletta (ma anche di una macchina per cucire) in molte di quelle regioni, è in grado di cambiare la vita di intere famiglie. La riflessione sui metodi di trasporto dell’acqua, sulla sua sanificazione, sui metodi di depurazione secca degli escrementi, (che sono, tuttavia, non bisogna dimenticarlo, dei palliativi all’inesistenza di acquedotti e fognature e quindi all’impotenza dell’economia politica) sono solo un assaggio di quello che il progetto può fare se sposta la sua attenzione ai problemi dell’”altro” mondo. La Vespa e l’Ape nacquero come prodotti per riconvertire la Piaggio da industria aeronautica ad industria civile e sarebbe utile capire se il nostro design per la ricostruzione (di quando anche l’Italia era un paese del sud del mondo, senza automobili e lavatrici) possa rappresentare un modello di riflessione per i problemi di cui stiamo parlando.
Qualche mese fa, in una fattoria in Friuli, ho assistito a questa scena: un gruppo di indiani stava smontato una grande trebbiatrice per il mais e la metteva pezzo per pezzo dentro ad un TIR. Ho chiesto informazioni. Gli indiani stavano acquistando da un contadino del luogo quel macchinario vecchio di più di vent’anni per riadattarlo, in India, alla mietitura di altri tipi di cereali. In quel momento mi sono ricordato che, alla fine degli anni ’60, i Benetton acquistarono dalla Cotton una notevole quantità di telai dismessi per la produzione di calze da donna e li trasformarono a basso costo in ottimi telai per la produzione di maglieria. La nascita di un nuovo modello industriale che ha cambiato l’economia di un territorio, prese l’avvio dal riuso di una macchina industriale desueta. Ma, al di là di questo stratagemma industriale, la Benetton ha evidentemente mediato il suo modello produttivo da quello agricolo, perché il sistema della produzione “diffusa” affidata alla rete dei terzisti sul territorio trevigiano è molto vicino a quello della latteria sociale col suo sistema di raccolta diffusa e lavorazione centralizzata o a quello dell’allevamento dei bachi da seta praticato storicamente nelle campagne venete. L’agricoltura e la sua dimensione territoriale, possono dunque rappresentare un modello per un sistema di produzione industriale.
Uno degli aspetti più negativi della cosiddetta globalizzazione non è tanto negli effetti del flusso di merci extracontinentale, che esiste fin dai tempi di Marco Polo, quanto nella totale indifferenza nei confronti del territorio che il concetto di delocalizzazione comporta. Indifferenza per il territorio come eco-sistema produttivo. Oggi l’attenzione dell’architettura e del design è ancora rivolta verso la soluzione dei problemi materiali e di status delle aree metropolitane. Il tema dell’Expò di Shanghay 2010: Better city, better life, sembra confermare questa direzione. La città ed il suo mercato sono al centro dell’attenzione del mondo del progetto.
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Protesi
“12 aprile. Haider sta facendo la fisioterapia, gli abbiamo assicurato che in futuro cercheremo di dargli una protesi, che potrà ancora camminare. Ritornerà sulle montagne a pascolare capre, non ha altra scelta. Dovesse capitargli di nuovo, speriamo calpesti la mina con la gamba artificiale.”
Chi ha letto Pappagalli verdi di Gino Strada sa che l’oggetto di design più esportato (come accessorio di guerra) dall’Occidente industrializzato nel Sud del mondo sono le mine antiuomo che privano di arti soprattutto bambini e ragazzi che dei “teatri di guerra”, a guerra finita, sono i primi a reimpossessarsi per giocare o per lavorare. La soluzione è nella messa al bando di questi dispositivi, ma tutti sanno che le aziende delocalizzano la produzione in paesi dove il bando non esiste. Così, la fine di ogni guerra, porta con sé un esercito di persone civili mutilate. Bisogna esportare nel Sud del mondo l’eccellenza, non le cose di seconda mano: il messaggio del centro di cardiochirurgia di Emergency è un indicatore chiaro. L’eccellenza, nel campo delle protesi è quella promossa dell’atleta sudafricano Oscar Pistorius che con delle protesi di gambe in fibra di carbonio (soprannominate cheetah ghepardo) riesce a competere con i più veloci corridori del mondo. La vicenda sportiva è nota. Alfred Nobel inventò la dinamite nel 1867: i suoi 350 brevetti lo fecero diventare ricchissimo. Durante un esperimento di esplosione in una delle fabbriche il fratello morì ed il padre perse le gambe. Nel 1890 Nobel cominciò a sostenere i movimenti pacifisti e nel 1896, all’apertura del suo testamento, si apprese dell’istituzione del premio da assegnare a coloro che operano per il bene dell’umanità. In attesa che i produttori di mine si adeguino alla statura e alle crisi di coscienza del loro fondatore, ecco un quesito per il mondo del design: le protesi di Pistorius costano 3000 euro, un paio di stampelle 30.
Qualche designer ha un po’ di tempo da dedicare?
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Vimini.
Al salone del mobile incontro i rappresentanti di una ditta di mobili da giardino. Sono mobili in filo di plastica intrecciato: è la stessa tecnica del rattan, solo che, invece del midollino, si usa la plastica. Dura di più. Li fanno produrre da qualche parte in Africa. Una persona, mi dicono, impiega una giornata e mezza per una poltrona. Penso che una giornata e mezza sono al massimo 6 dollari. Quattro euro. La materia prima ha un costo basso: un rocchettone di filo di plastica. Loro rivendono la poltrona a 150 – 200 euro. Questo è uno dei modi più diffusi in cui il nostro mercato del design si rapporta al Sud del mondo.
Mio nonno costruiva dei bellissimi cesti in vimini. In primavera andava per i campi a tagliare i sottili rami gialli del giunco, li legava in un fascio e li teneva immersi nell’acqua del fosso per un po’ di tempo. In questo modo il legno rimaneva morbido fino a quando non decideva di lavorarlo. Poi con la sua roncola li spellava ad uno ad uno fino ad estrarre il midollo bianco ed elastico. A questo punto iniziava la costruzione dei cesti. Non ricordo quanto tempo impiegasse e del resto non era un lavoro continuo, perché avveniva nell’intervallo dei lavori sui campi. Nelle giornate di pioggia se ne stava seduto su dei sacchi di juta, sotto il portico del fienile, e lavorava ai suoi cesti che servivano poi per la vendemmia, per la raccolta del granoturco, per raccogliere l’erba per i conigli, per portare in casa i ceppi di legna da ardere. Non sto parlando di un’era mitica e lontana, ma gli anni ’60 del ‘900. Mio nonno non era un nostalgico di un’età bucolica: aveva lavorato, negli anni ’30, in Germania, nella zona industriale della Ruhr, e aveva provato sulla sua pelle come i tedeschi stessero ancora spremendo dalla carne, dal sangue e dal ferro gli articoli di massa. La plastica, negli anni ’60 era già abbastanza diffusa, ma nessun progettista della Kartell aveva mai disegnato qualcosa che funzionasse così bene come i suoi cesti, con la giusta ampiezza e profondità, leggerezza, elasticità, solidità e resistenza del manico curvo. Il suo design era un design per il suo territorio, che lui faceva nascere dalla sua terra per i propri bisogni. Da bambino mi sedevo accanto a lui sotto il portico e provavo anch’io ad intrecciare i vimini: chissà se da qualche parte, nella memoria, qualcosa di quei gesti mi è rimasto.
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Design for the territory
“The most menial of labour will sooner or later be done by less civilised populations. What should be done about this? Either we become a population that imposes its own preferences and style, or else, if we limit ourselves to squeezing out economical items of mass appeal from our blood, sweat and tears, we will end up suffering hunger along with the populations of the Orient.”
It is with this contemptuous realism that Friedrich Naumann posited one of the key questions regarding the relationship between project and industry of the 20th century in his essay Art in the age of machines (1904). The sentence is today more meaningful if we think that three years later, in Munich, Naumann became one of the founders of ‘der Werkbund’, an association that, through its discussions and initiatives, brought forth many of the themes that fostered the utopia of Modernism. For Naumann, the famous “added value” of projects was the only means of which the West disposed to avoid hunger in a world economic competition: our traditions of industrial design, let us not forget (even Bauhaus), is born with this imprinting influence.
Banished for decades in FAO’s reports and in other missionary catholic associations, the word ‘hunger’ has started to reappear frequently in the media. After 35 years of the word ‘oil’ dominating the airtime of televised news, the word ‘grain’ is reappearing, and this is not a good sign. If anything, it reminds that, beyond cities and metropolises, there are vast territories of the planet made up of cultivated fields and a great number of people who make their living in agriculture. They do not necessarily work for intensive or mechanical agriculture, but for subsistence agriculture, with products that have great difficulty in competing with those imported from western countries, whose prices are “drugged” by contributions of state funding. A majority of people who do not have access to the globalized flux of merchandise live in these agricultural territories: villages that are outside of the global village. To design for the rest of the world, for the world’s “South”, means to regain awareness regarding the territory, and about the fact that the city and its objects cannot influence all thinking and theory on project design. Designers should understand that a large part of the world’s territories and populations do not have access to the world’s more commonly attained services and merchandise, and it has no one to think of objects that can ameliorate such conditions.
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Mobility and Reuse.
Two years after the Vespa, designed in 1945 by Corradino D’Ascanio, the Piaggio company started production on the Ape, an object that soon became the symbol of design for the territory. The enormous use of this small delivery tri-car, in Italy and in countries of south-eastern Asia (in India it was produced by license) demonstrated that motor-vehicle design could become effective in transforming the economic life of a country. Still today, the purchase of a bicycle or even a sewing machine in many remote regions, is capable of changing the life of entire families. Some reflections on different methods of transporting water, on its purification, or methods for the dry depuration of excrement, (which are an alleviation in the case of lacking aqueducts and sewage systems and hence also to the impotence of a political economy) are only a few examples of what the project itself can focus on if it moves its attention to problems of the “other side” of the world. The Vespa and the Ape were the products that converted the Piaggio company from an aeronautical industry to a civil one, and it might be useful to understand if our design for the country’s reconstruction (back when Italy was considered a country of the world’s South, without automobiles, and washing machines) can represent a model for reflection on the problems and issues in discussion.
Some months ago, on a farm in Friuli, I witnessed the following scene: a group of Indian people was disassembling a large threshing machine for corn and they put it, piece by piece, into a transport truck. It turned out that the Indians were in the process of buying that 20 year-old piece of equipment from a farm worker so that they could re-adapt it, and use it in India for other types of grain. At that moment, I remembered that, at the end of the 1960’s, the Benetton family purchased a large quantity of disused power looms that produced women’s stockings from the Cotton company, and later transformed them at a very low cost into excellent looms for knitwear production. The birth of a new industrial model that has changed the economy of a territory was started with the re-usage of outdated industrial machinery. In addition to this industrial stratagem, Benetton was also able to mediate and emulate its productive model from agricultural practices, as the system of “diffused” production entrusted to a network of tertiary services throughout the territory of Treviso is very close to that of a dairy co-operative, with its system of widespread delivery and collection and a centralised production unit. Agriculture and its territorial scale, can thus represent a true model for a system of industrial production.
One of the negative aspects of so-called globalisation is not so much in the effects of extra-continental flux and exchange of merchandise, that has existed since the times of Marco Polo, as much as the total indifference towards the local territory that the concept of de-localisation implies; an indifference towards the territory intended as a productive eco-system. Today the attention of architecture and design still mainly focuses on the solution of material problems and the status of metropolitan areas. The theme of the Expo in Shanghai 2010: Better city, better life, seems to confirm this focus. The city and its market are again at the centre of attention in the world of project design.
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Prosthesis
“12 April. Haider was doing physiotherapy, and we assured him that we would try to give him a prosthesis which would allow him to continue walking. He could return to the mountains and pasture his goats. He didn’t have any other options. If it happens again, let’s hope that he steps on a mine with his artificial leg.”
Whoever read Green Parrots by Gino Strada, knows that the most exported objects of design (as accessories of war) from developed countries to the rest of the World’s Southern Hemisphere are anti-personnel mines, which maim and kill mainly children who, are usually the first, once the battles are over in those war-torn areas, to repossess the grounds for play or for work. The solution is to banish these devices, but everyone knows that the manufacturers de-localise their production into countries where the ban does not exist. Thus, the end of every war brings with it an army of mutilated civilians. Excellence needs to be exported to the world’s Southern Hemisphere, rather than used second-hand goods; and the message of the centre for heart-surgery of Emergency is a clear indicator. Such excellence, in the field of prosthesis development, is promoted by the South-African athlete Oscar Pistorius (nick-named cheetah) who, with the carbon-fibre leg prosthesis, succeeded in competing with the fastest of the world’s runners. This event in the world of sports is well known. Alfred Nobel, who invented dynamite in the year 1867 had 350 patents that made him very wealthy. During an explosion experiment in one of his factories, his brother was killed and his father lost both legs. In 1890 Nobel started to support a pacifist movement, and in 1896, with the reading of his testament, there was a request for the institution of a prize to be assigned to those who operate for the good of humanity. While waiting for mine producers to adapt to the stature and conscientious decisions of their founder, we pose this question to the world of design: If Pistorius’ prosthesis costs about 3000 Euros, and a pair of crutches about 30; do designers have any good ideas and time to dedicate to this problem?
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Wickerwork.
At a recent furniture expo-fair, I met the representatives of a company that makes lawn furniture mostly out of interwoven plastic. They use the common rattan technique, except that, instead of natural reeds, they use plastic because it last longer. They produce these pieces somewhere in Africa. One person, they tell me, spends one day and a half to make an armchair. I think that a day and a half in that country pays almost 4 euros. The raw material, a huge spool of plastic filament, has a low cost. They ultimately sell the armchair at 150-200 Euros. This is one of the most widespread ways that our market of design relates with the world’s Southern Hemisphere. My grandfather built beautiful wicker baskets. During the spring he would go into the fields and cut yellow reeds, tie them into a bunch and keep them immerged in water for quite a while. This way, the wood remained malleable until he decided to work it. Then, with his billhook, he flayed them one by one, until he could extract the white and elastic pith. At this point he started to construct the baskets. I do not remember how long it took him, and it was not a continuous job, because he did it in his spare time while taking a break from his work in the fields. During rainy days, he sat there on burlap sacks, beneath the portico of the hayloft and worked his baskets, which were used for grape harvest, for gathering corn, to collect dry grass for the rabbits, and to bring home firewood. I am not talking about a mythical era of long ago, this was in the 1960’s. During the 1930’s, my grandfather worked in Germany, in the industrial area of Ruhr, and he knew very well that the Germans were starting to produce articles for the masses. Plastic in the 1960s was wide-spread enough, but no project designer from Kartell had ever designed anything that worked as well as his baskets, having just the right width, depth, elasticity and resistance of the curved handle. His design was a design for his territory, which he developed on his land for his own needs. When I was a child, I sat next to him under the portico and tried to interweave the reeds: who knows if somewhere in my memory some part of that skill remains?
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